Intervista allo scrittore maestro Pietro Reverdito

di Doglio Maria Antonietta

L’intervista è tratta dal libro “Petali di Rubino”.

Febbraio 2019. Do il benvenuto a Pietro Reverdito, posso anticipare che è una delle persone che stimo di più come coerenza tra i pensieri e fatti.  Grandissima è stata la gioia nel sapere, che il maestro Reverdito avrebbe accettato di rispondere alle mie domande sulla sua vita, sulle sue passioni.  Con grande emozione inizio questo dialogo. Mentre trascrivo questa intervista l’energia che scaturisce, è unica. La carica positiva e propositiva del maestro è fantastica si capisce che ha ancora molto da dare e da regalarci.  

D.: Posso chiederle in che anno è nato e dove?

R.: Sono nato a Mombaldone (At), il 14 aprile 1927. Sono prossimo quindi ad entrare nel novantatreesimo anno d’età.  Nei miei piani ripongo il desiderio di continuare a… respirare ancora un po’. Proseguo poi con una serie di “domande a raffica”, si senta libero di raccontarsi come vuole: 3 D.: Che scuola ha frequentato? R.: Premetto che il periodo bellico ha complicato di molto il percorso scolastico di allora (1930/1945). 

Ad ogni buon conto, dopo i primi quattro anni del corso elementare, ho concluso il ciclo obbligatorio in collegio a Calambrone in provincia di Livorno.  Il sentore di guerra mi richiamava a casa. L’iscrizione al “Ginnasio/Liceo” di Acqui Terme mi permetteva di ultimare i primi quattro anni.  Lo “stop” era dovuto ancora ai fatti di guerra.  Avevo deciso, in cuor mio, di partecipare alla lotta armata contro il nazi-fascismo.  E così è stato. A fine conflitto ho ripreso gli studi preparandomi a frequentare l’ultimo anno delle “magistrali” (Savona. Luglio 1947). Nel 1949 ottenevo la nomina d’insegnante a San Giorgio Scarampi (At), dove ho ricevuto (e sentito) lo sprone per continuare quel tipo di vita. Non mi sento di dilungarmi sul non piacere della vita universitaria (Magari di allora).  Se sarà il caso, ritornerò sull’argomento.

D.: Ha fratelli, sorelle?

R.: Eravamo in quattro. Le due sorelle, quasi mie coetanee, non ci sono più. Il fratello, nato nel 1936, vive e lavora a Trento, dove ha intrapreso l’attività di editore molti anni fa. D.: Ha voglia di raccontarmi qualcosa dei tuoi genitori? Quanto sono stati importanti per lei?  R.: Papà e mamma -a detta di tutti- sono sempre stati dei lavoratori capaci e instancabili. Papà d’animo… tenero, nei momenti “migliori”, si dilettava con il violino, questo dopo le gravose incombenze di gestore postale.  La mamma… viveva per gli altri. In tempo di guerra aveva ospitato i parenti “cittadini”, che si sentivano in pericolo.  Per decenni aveva saputo condurre un esercizio commerciale che le permetteva però di dedicarsi anche alla vigna e all’orto (forse è nato lì il mio “odor di terra”).

D.: È sposato? Ha figli?

R.: Fossi nato donna non avrei di certo sposato uno come me! Uniti in matrimonio dal 1951 (Quasi sessantotto anni fa), ci siamo presi il lusso di andare in vacanza ben… due volte nell’arco della vita. In tutto questo periodo è nato Gian Luigi nel 1956; unico rampollo. Avrei voluto altri figli. Ci godiamo però due nipoti e tre pronipoti.

D.: Dove abita? Li piace vivere lì? Vorrebbe vivere altrove?

R.: Ho trovato una piacevole sistemazione nella famiglia di mia moglie. Mi sono trovato nel classico di “appendere il cappello al chiodo”. La situazione non mi ha mai fatto sentire in difetto, anche perché “vivevo” del mio lavoro.  Comunque, vivo in una casa isolata, lontano da tutti i trambusti moderni. Ho sempre cercato la compagnia “giusta” -specialmente quella che si dedicava allo sport- per vivere e rivivere i momenti più intensi della vita.  Pertanto non cambierei l’aria che respiro con le presunte comodità della vita.

D.: Maestro, so che è stato un partigiano, ci può ricordare qualcosa di quel periodo della sua vita?  R.: Una risposta esaustiva mi porta molto addietro nel tempo.  Quando da scolaretto “non accettavo” l’atmosfera che… imperversava fuori e dentro l’aula.  È da allora che ho iniziato a rispettare coloro il cui comportamento non era disdicevole.  Ero cresciuto alla scuola del giusto e dell’onesto, non ho mai accettato la superbia e l’alterigia del caparbio, in quel tempo molto comune. Non potendo rifiutare la divisa, a dieci anni facevo parte del gruppo dei marinaretti.  Partecipavamo alle “adunate del sabato fascista”, in maniera tutta nostra (leggasì “appartata”).  Già la nascita dell’impero non mi aveva entusiasmato, anche perché dai racconti dei legionari avevo appreso ciò che davvero fosse accaduto anche in terra d’Africa.  Ho avuto prove concrete della cattiveria d’animo da parte di chi conduceva all’errare dei nostri ragazzi.  Certamente la guerra si conduce con l’uso delle armi, ma dare la morte è pur sempre l’ultima soluzione.  È anche l’idea che mi ha sorretto in tutto il periodo partigiano.  L’arma, che mi rigiravo tra le mani, mi serviva per difesa, per proteggere gli amici (i miei commilitoni) e tutti coloro che chiedevano “il nostro” intervento.  Il periodo del partigianato mi ha visto in gioco dai sedici ai diciotto anni.  L’età non diceva di obblighi militari; mi sono “schierato” per il mio “sentire” interno: giustizia e pace, libertà e uguaglianza. 

In me è sempre vivo il ricordo di Ludovico, Pantera, Sole, Dario, e di tutti quelli che sulle colline dell’Appennino e delle Langhe hanno dato tanto per gli altri, a cominciare dalla vita.  Ormai, vecchio, condivido in pieno il mio trascorso partigiano non ho mai cercato di dimenticare e di abiurare.

D.: Quanto l’ha segnata come essere umano, l’aver vissuto di persona e soprattutto in prima linea, la fine della seconda guerra mondiale nello status di giovane partigiano?  R.: L’esito del secondo conflitto mondiale era ormai segnato, sia per la Germania sia per il Giappone, e per l’esito positivo del “D. Day” che per il riuscito sbarco in Sicilia da parte delle forze Alleate. Non mi era per tanto facile accettare le violenze dai nazi-fascisti.  Tanto meno scusarle.  Combattere non è mai una soluzione accettabile in alcun contesto. Era la speranza -e quasi la certezza- di un finale positivo e vincente dal conflitto, che ci faceva tenere guardinghi al fine di finalmente vivere il mondo che volevamo e, nel contempo, ci teneva distanti dalle tristezze passate.  Avevano un nome: fatica, fame, paura e, soprattutto, lo sconforto e il dolore dei compagni, che non potevano più essere presenti.  Ma la vita, l’esistenza di ciascuno di noi doveva riprendere in seno ad una società finalmente civile.  E significa libera, laboriosa, e, finalmente, con la possibilità di scegliere il futuro, il cammino di giovani impegnati in ambienti dediti al progresso e al miglioramento sociale. Da subito, con il 25 aprile, riprendendo gli studi, mi ero ripromesso di non deludere nessuno, specialmente me stesso, dal volere il giusto per gli altri.  E allora la pace sopraggiunta significava volontà, laboriosità e rispetto, condizione per vivere bene con gli altri.

D.: Quanto la conquista della libertà dal giogo nazi-fascista era importante?

R.: Tanto importante quanto la vita stessa.  Una vita condotta da schiavi non permette a nessuno di realizzarsi. Sarebbe un non senso. O semplicemente un pascolamento incosciente in un caotico armento.  Senza valori non è neppure pensabile il voler raggiungere determinati fini. Nessuno può costringere l’animo umano ha costruirsi il fine della vita in modo improprio. 

La personalità concorre a salire la scala piolo dopo piolo, per a arrivare ferrati… “lassù”! D.: Che lavoro ha svolto? È stata una scelta il suo lavoro o una conseguenza del momento storico-economico-familiare? R.: L’attività che fin da giovane, avevo intrapreso e che ho condotto per quaranta anni è stata in realtà, l’unico vero lavoro della mia vita. Certamente mi sono sbizzarrito in passatempi vari (boscaiolo, contadino, cantiniere, amatore giuoco del calcio e, più ancora del “balon a pugn” e della filatelia), ma l’impegno consistente l’ho riservato al mondo della Scuola.  Insegnare a “leggere, scrivere, e far di conto” ha sempre rapito il mio tempo, ricambiandolo in tanto piacere e tanta gioia.  Va da sé, che dopo un trentennio da pensionato mi ritrovi ancora nei tranquilli sonni “a vedermi in mezzo ad un gruppo di vocianti bambini”. Mi pare proprio di continuare “quella vita”. 

D.: In tanti anni d’insegnamento ha visto generazioni e generazioni passare sui banchi di scuola, qualche suo alunno/a le è rimasto nel cuore? 

R.: Non posso negare che qualcosa di simile è accaduto anche a me, non tanto il “tempo scolastico” quanto un’eventuale e possibile prosecuzione nel tempo post-scuola.  Potevano esser la vicinanza, l’amicizia di famiglia, interessi comuni, la frequenza degli incontri, la parentela e anche un grado di affinità.   I molti casi della vita potevano incidere positivamente nel “vivere a contatto”. 

D.: Ci può regalare un aneddoto dei suoi anni da maestro? 

R.: In una gita scolastica eravamo andati “a vedere il mare”. Giunti sulla spiaggia un ragazzino “sfuggiva al controllo” e correndo verso l’onda si bagnava le mani, portandosi alla bocca un po’ d’acqua.  Con stupore frammisto a gioia, usciva questa battuta che ha strappato le risa ai presenti: “È amara e salata (l’acqua) come ha detto il maestro!”. Da cui: la parola del maestro è sempre veritiera.

D.: Conosciamola di più, quali sono i suoi libri più cari? Ha qualche pittore preferito? È tifoso di qualche sport? La sua squadra di calcio del cuore? 

R.: In famiglia la passione del libro è sempre stata coltivata. Papà leggeva molto. Mio fratello è editore.  Zii e zie insegnamenti nel periodo eroico dell’ottocento.  Io ho seguito a ruota. Da ragazzo mi ero invaghito del “Romanzo storico” dei Dumas padre e figlio per passare poi , più grandicello alla conoscenza dei problemi sociali alla Steinbeck. Da “maturo” ho cercato di capire le cause che hanno oberato e che complicano i problemi delle popolazioni mondiali.  Non ho mai dato spazio per approfondire le conoscenze all’arte. Rapito dalla “realtà”, non do seguito a forme “personali” pronte a snaturare il tutto. Come fosse conquista artistica. Che non è.  Il grado di salute personale mi ha concesso una lunga appartenenza al mondo sportivo.  Da giovanissimo mi sono dedicato al calcio come amore nascente. L’adesione all’ambiente mi suggeriva poi di dedicare il mio tempo libero al “Balon a pugn”, croce e delizia ancora ottantenne.  E poi da troppo tempo seguo il calcio solo per TV.  Non per “amore tradito”.  Semmai sono stati i profondi mutamenti tecnici che, per me, hanno snaturato il calcio sotto il duplice aspetto tecnico e sociale.  È con rincrescimento che oggi mi chiedo: “Perché i ragazzi -nostrani- sono dimenticati? Il grande bailamme di giocatori, a chi rende? Donde provengono i capitali per una tale mole di mercato?”.  Penso che la vera passione sportiva sia in declino. Personalmente ne soffro.

D.: Quali sono i suoi hobby? Quanto sono forti le sue passioni?

R.: Rimanere avvinghiato a qualcosa mi piace proprio. Mi obbliga anche al massimo impegno.  Se hobby significa dedizione allora metto al primo posto “il tempo- scolastico”, che si prolunga per nove mesi.  Il restante periodo alle prese con lo sport ed il passatempo di cantina. La filatelia, poi l’ho sempre avuta dentro e coltivarla è sempre stato un piacere. Il francobollo mi parla di terre lontane, di avvenimenti importanti e di personaggi che han saputo elevarsi concedendo molto agli altri. E proprio in questo periodo che sto rivedendo il materiale che ho confusamente collezionato per tutta la vita.  “Hobbies e passioni” sono la stessa cosa.  Passatempi ed impegni fanno -sovente- la giornata corta. Forse è uno dei segreti che mi hanno condotto fino alla soglia dei novantadue anni. Spero ancora di andare oltre.  

D.: Perché ha scelto di scrivere i libri che raccontano le sue esperienze di gioventù e il suo vissuto d’insegnante? So che non è né per la gloria o né per esibizionismo, allora qual è stata la molla che l’ha spinto a regalarci i suoi ricordi? 

R.: “Scrivere” non significa, solo, mettere a nudo le proprie povertà, e neppure vincere confronti o concorsi d’occasione.  Per me è stata una routine di dovere: programmazione annuale, scansione mensile, attivazione giornaliera. In aggiunta extra-servizio poteva maturare l’incombenza dei verbali del “Collegio d’Interclasse” e del “Collegio dei docenti” o anche l’incarico “Vicario”.  A descrizione era richiesta la “cronaca-scolastica” che mi consentiva di trasmettere chi ero e non quel poco che sapevo.  Ecco allora che da pensionato si è dilatato il tempo libero che ho cercato di riempire.  Incapace di tradire il mio mondo, ho messo sulla carta quei fatti e quelle sensazioni che mi avevano avvinto per i primi sessanta anni della mia “permanenza” in vita.  Diventavano impellenti i momenti della fanciullezza, vissuti nel periodo della “mia-Resistenza”, poi quelli di una certa maturità (non sempre ben accetta dai soloni) ed, infine, un ripasso a quanto ho gioito e sofferto nell’impegno scolastico.  Una molla interna mi spinge a rivedere e ad approfondire quelli che sono i temi ed i problemi: da Montechiaro alle lande più remote, su suggerimento dei francobolli ancora testimoni rilevanti.

D.: Quali sono state le sue più grandi passioni di ieri? Oggi sono cambiate?

R.: Non sono mai stato capace di migliorare, cambiare abito o faccia non mi ha mai toccato.  Sono rimasto il povero -o meno povero- che ero. Nel tempo ho potuto notare, che ogni mutazione d’intenti richiede prerogative anche doppiogiochiste. Ne ho paura. 

D.: Qual è la cosa o l’avvenimento che le ha dato la più grande soddisfazione? 

R.: È il primo pomeriggio del 17 aprile 45; con Carletto ed il francese Sergente giungiamo a Mombaldone per rilevare la situazione. Facciamo in tempo a scorgere l’ultimo autocarro (della IV batteria della divisione San Marco), che lasciava l’abitato del paese.  Dopo una breve ricognizione siamo certi di una fuga sperata e riuscita da parte loro.  Che sia un paese abbandonato da chi lo teneva in scacco, faceva piacere, ma vederlo e sentirlo finalmente libero era una gioia che riempiva il cuore di felicità.  Dopo venti mesi ritornava il sorriso sui visi dei bambini e gli evviva da parte degli adulti da troppo tempo vissuti in clima di paura. 

Dopo un’ulteriore settimana, la lunga e brutta parentesi della guerra si chiudeva. Si apriva un futuro pieno di speranze, l’inizio della nuova vita. D.: Ha voglia di raccontarmi qualcosa di lei? Parli a ruota libera se vuole…  R.: Tutto sommato la vita con me è stata benigna, dalla “buona- stella” sono stato preservato.  Incidenti del periodo infantile, i rischi del tempo di guerra, i momenti topici della vita mi hanno visto indenne.  Così sono cresciuto con vedute ottimistiche che mi hanno accompagnato per tutta la vita.  Mi piace ancora ricordare una piacevole situazione mai cessata: non “portarsi dentro” sensazioni o giudizi negativi.

D.: Da piccolo quali erano i suoi sogni? Che cosa sognava di diventare?

R.: Sdraiato sull’erba del prato di casa, nelle serate estive, amavo contare le stelle. In ognuna di loro c’era un sogno. Troppi per realizzarli. Così crescevo controllandomi e accontentandomi di ciò che il momento mi offriva. E mi trovavo e sentivo benignamente accolto in famiglia, a scuola e dagli amici. 

D.: Di questi sogni, che aveva da ragazzo, ne ha realizzati? Ha ancora voglia di rincorrerli? 

R.: Sì. Quasi in fondo al corridoio ho sempre mosso i passi nella stessa direzione.  Così continuo e continuerò ad impegnarmi e bearmi, cercando sempre le stesse cose: rispettare “tutti”. Ma senza pretese personali.

D.: Secondo lei, i desideri mutano nel tempo? Quanto si cambia secondo lei? I dolori della vita o le grandi gioie ci cambiano?

R.: Desiderare l’impossibile è un errore.  La normalità sta nell’accettare o no i risvolti dei tempi.  L’adattarsi o il disadattarsi nasce dentro di noi.  Seguire il proprio cammino evita sconsiderati cambiamenti e si è anche più pronti a non lasciarsi influenzare da riserve mielose o allarmistiche.  Le spallate o gli sgambetti, che si possono ricevere, non fanno altro che rendere più forte chi è già forte per conto suo. 

D.: A chi vorrebbe assomigliare? Chi ammira in particolare guardandosi attorno? 

R.: Da infante volevo “copiare” i miei nonni. La loro eredità morale era quanto di più apprezzabile potessi ricevere. Ancora oggi li ricordo nelle loro parole e nei loro gesti, sempre misurati e opportuni. 

Nei tempi scolastici avrei ammirato Cesare senza la controfigura di Vercingetorige, Machiavelli senza il suo dire forte ed irrispettoso, Napoleone se non avesse messo a soqquadro la bella Valle Bormida e neanche uno di quelli che avevano giocato con la vita degli altri.  Alludo a Hitler, Stalin, Mussolini e Franco tanto per rimanere nei confini di… casa.  Su tutti “i degni di essere ricordati” c’è lo “scarparo” (ciabattino) di – Mombaldone. È stato il primo, e uno dei pochi, che in tempi assolutamente perigliosi mi sapeva parlare di libertà e di uguaglianza, la linfa dei miei sogni giovanili e oltre.

D.: Chi vorrebbe ringraziare per qualcosa o per quello che lei è diventato?

R.: Innanzi tutto papà e mamma.  Ed i tanti amici veri che ho incontrato nei vari e risolutivi momenti della vita. Ad iniziare da una maestra livornese, da alcuni professori del “Ginnasio-Liceo” di Acqui con in testa il Preside,  da ultimi (ma tra i primi), coloro che mi sono stati vicini specie nel periodo del pensionamento. Che è quello delle maggior richieste personali.  D.: Nella sua vita ha incontrato persone che le hanno insegnato o le hanno dato moralmente o fisicamente tanto, in modo disinteressato, stupendola così del loro comportamento? 

R.: Era il 12 aprile del 45; sulla Langa di Roccaverano.  Siamo stati attaccati da un contingente della San Marco.  Io ero di guardia con “Balilla”.  Dato l’allarme per tempo, volevo sincerarmi che tutti si fossero messi in salvo.  Mi sono attardato un attimo; quel tanto che è bastato per sentirmi in difficoltà. Una voce di un partigiano, già al sicuro, mi ha guidato fuori dal pericolo usando la tecnica di guerra appresa in precedenza. Quando gli ho detto “Grazie!” mi risposto così: “È stato un giochetto…”. D.: Ha rimpianti nella tua vita personale, lavorativa, artistica? R.: Ogni tanto mi si chiede: “Guarda che -in quel frangente- potevi fare di più!”.  Ma è stato così per non cedere a lusinghe o peggio. Non cercavo né gloria, né allori.

D.: Che cosa vorrebbe per il suo futuro? Guardi avanti e mi risponda col cuore…

R.: Vorrei campare il necessario per potermi accertare se le mie previsioni, fatte in più tempi, su temi comunitari e umanitari, corrispondessero o no alla realtà. (problemi dibattuti: un territorio bistrattato, una corruzione dilagante, un mercato sempre più complicato, una ricchezza mal distribuita, una proprietà senza responsabilità).

D.: Ha prospettive di cambiamento? 

R.: Non ho più la forza e la possibilità d’incidere in alcun modo; neppure in un’area ristretta. D.: Siamo al termine di un interessantissimo colloquio, ringrazio l’intervistato per la sua pazienza e disponibilità. In chiusura, vorrei chiedere ancora un ultimo pensiero al Maestro Pietro Reverdito: Quanto è importante la libertà? Che cosa sarebbe ancora disposto a fare per lei?

R.: Un vecchio aneddoto recita così: “La libertà si apprezza quando non c’è”. Verità semplice e inconfutabile.  È bene però dare al termine “libertà” il significato che merita.  Le membra del corpo si muovono dietro un richiamo (volontario o automatico) del cervello.  Il tutto una fusione “pacifica” di dovere-potere.  Se gli arti di un organismo si comportano da nomadi, di valenza indivisibile, ne risulta un profondo afflato fra anima e corpo. Ovverossia, si trova unità in una continuazione d’intenti, fra cui i genitori alimentano (spirito e corpo), gli insegnanti percepiscono e indicano (dalle doti alle possibilità di ognuno), i politici trasmettono nel disegno generale le volontà di un popolo. Il diversamente… rossi, è quantomeno fuori luogo e pure errato.  Sentirsi libero è la condizione unica per sentirsi vivi ed utili.  Vivi per la possibilità di esternare pensieri ed opere; utili per l’abbraccio fraterno che comprende operato e affetto esteso a tutti.  Al presente sono sorti nuovi limiti alla libertà altrui.  Certe frange umane considerano inferiori altri gruppi, più per sfruttamento che per altri bassi voleri.  È a questo punto che diventa positivo il discorso sull’uguaglianza. Innanzi tutto non esistono più “razze umane” ma solo tante “etnie” che si sono diversamente caratterizzate in tempi e ambienti differenti. Da cui tutti saranno uguali rispettosi di differenti cammini.    È mira retro spiritica o cristianamente “francescana”?  Tutte le teorie politiche, così come le credenze religiose possono qualificarsi per una condotta che tenga conto della dignità umana ed del bene comune. 

La popolazione mondiale tocca attualmente sette miliardi d’individui. Il “mangiare” è assicurato per tutti. E allora perché ci sono popoli oberati dalla fame?  Ultima annotazione: un decimo della popolazione è in possesso di una buona metà del patrimonio mondiale. Ecco perché sono in difetto di giudizio sia l’idea di uguaglianza che il livello di libertà. 

 

Breve nota su Pietro Reverdito

 

Rileggo più volte le risposte del maestro Reverdito, le trovo strabilianti, sono piacevolmente sorpresa dallo stile con cui si racconta, sono pienamente convinta della mia scelta e determinazione a volerlo intervistare.  Grazie maestro, della sua lucida dissertazione sui più svariati argomenti proposti, ed altresì grazie di averci regalato “pillole” di saggezza morale ormai perse o sconosciute. Che cosa posso dire di lui? Ha insegnato una vita, formando e trasformando dei bambini, che con lui si sono affacciati al mondo, poi ha scritto, scritto tanto, raccontato un po’ fuori dai denti il suo pensiero, deciso e fiero.  Mi sono recata alle Tè Rosse, Montechiaro d’Acqui, dove risiede e mi sono trovata di fronte, non un anziano novantenne, ma un giovane novantaduenne, con un’energia che traspariva dalla sua lucidissima mente, un entusiasmo travolgente, nessun vanto per i libri che ha pubblicato, ma solo voglia di raccontare, perché i ricordi ed i fatti del passato non si perdano nei meandri della memoria di ciascuno di noi. Una frase del maestro mi ha colpito e mi ha fatto pensare: “ La cattiveria non ha una ragione”. A volte tanti discorsi non servono per esprimere un concetto.  Dopo ore di chiacchierate con il maestro “Pietrino”, mi accorgo che non ha mai nominato i libri che ha scritto, per cui le cito ora.  Le sue opere: LA GIUSTA PARTE (Impressioni Grafiche, 2009), IL MIO TEMPO (Reverdito editore, 2015), CI VEDIAMO DA GRANDI… (Reverdito editore, 2018). Ha scritto per il settimanale L’Ancora, Barolo e Langa Astigiana. Ma il vulcanico maestro Reverdito ha ancora in serbo molto e molto ancora, ho visto i manoscritti cui si sta dedicando in questo lungo inverno 2018/2019. Buon lavoro maestro e grazie dal profondo del cuore.  

Maria Antonietta Doglio

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