L’abbazia benedettina di San Quintino di Spigno ( parte 1) di Antonio Visconti

di Marina Levo

Ecco la prima parte della ricerca del dott. Antonio Visconti, sindaco di Spigno Monferrato. Pubblicata nel libro intitolato QUATTRO PASSI DI STORIA A SPIGNO MONFERRATO
ed Impressioni grafiche 2017

 

 

L’ Abbazia benedettina di San Quintino, in Spigno: origine, vicende storiche e stato a mille anni dalla fondazione.

 

Tra storia e leggenda

Era il 4 maggio del 991; nel castello di Visone venne firmato l’atto di fondazione dell’abbazia di San Quintino, da costruirsi nel territorio di Spigno, poco distante dal centro abitato, oltre il fiume Bormida. Il sito individuato si trovava lungo la via, già nominata Aemilia Scauri, che al tempo dell’impero romano collegava Derthona ( attuale Tortona) a Vada Sabatia ( ora Vado

Ligure), passando per Acqui. Ritrovamenti archeologici di epoca romana sono emersi nella piana di Castoira, poco distante dall’abbazia. Questa, non lontana dal borgo medioevale di Spigno, venne costruita sulla via che nel Medioevo seguiva il corso del fiume Bormida. Come si vede nella mappa qui riprodotta ( pag 56 del libro) la sua posizione su di un colle, detto di San Quintino, era importante dal punto di vista del controllo del territorio e del passaggio delle merci. Infatti, era localizzata in un’ansa del fiume Bormida, a ridosso di un ponte molto antico, nei secoli successivi mantenuto e ristrutturato, tuttora presente e denominato Ponte di San Rocco. Le Pievi e abbazie offrivano ospitalità ai viandanti. Tuttavia, insieme con le torri di guardia e i castelli dislocati lungo la valle, anche le abbazie rappresentavano i poteri locali, che grazie ad esse controllavano il territorio, esigendo tasse e gabelle. In altri casi erano ostili al feudatario, ne  offuscavano il prestigio e l’autorità, limitandone il potere. Esse comunque svolgevano un ruolo culturale, in un ambiente ricco di religiosità primordiale, ed erano centri portatori di sviluppo economico e di promozione sociale. Estensori dell’atto di fondazione erano i discendenti del leggendario Aleramo. Questi, figlio di Aldeprando di Sassonia, aveva sposato la principessa Alasia, figlia di Ottone I. Aleramo venne nominato marchese il 21 marzo 967. La leggenda, così come raccontata da Jacopo d’Acqui e ripresa dal Carducci, vuole che Aleramo nascesse da genitori sassoni nei pressi di Acqui, a Sezzadio, mentre questi erano diretti a Roma a scopo di pellegrinaggio. Il bambino venne lasciato ad una balia di lingua tedesca, con l’intenzione di riprenderlo al loro ritorno da Roma. Durante il viaggio di ritorno entrambi i genitori vennero a morte. Il bambino, rimasto orfano, crebbe allevato dai signori del luogo e all’età di quindici anni divenne scudiero. Combatte’ valorosamente nell’esercito imperiale, quando l’imperatore Ottone venne in Italia per sedare una ribellione in Lombardia. Divenuto cavaliere, conobbe la figlia di Ottone I. I giovani, temendo un rifiuto da parte del genitore di lei, fuggirono rifugiandosi in un luogo boscoso ubicato nella foresta dell’Adelasia, nell’entroterra di Albenga, oppure nei pressi di Garessio, ove si trova una montagna detta Pietra Ardena. Nella fuga, Adelasia cavalcò un cavallo bianco, mentre Aleramo si avvalse di uno rosso;da qui, secondo la tradizione sarebbe nato lo stemma della dinastia Ale rami a a strisce bianche e rosse ( ripreso poi da uno dei rami discendenti, la famiglia del Carretto).

Qui vissero per molti anni. Aleramo faceva il carbonaio e il carbone prodotto veniva venduto ad Albenga. Nacquero quattro figli, il primo di nome Ottone. Dopo molti anni, il padre di Alasia, Ottone I ritornò in Italia per sedare nuovamente una ribellione a Brescia. Lì venne raggiunto dal Vescovo di Albenga, accompagnato da Aleramo come capo-cuoco e dal figlio di questi come scudiero. L’ imperatore, venuto già a conoscenza dell’animo nobile e generoso di Aleramo, nonché della sua grande capacità di combattere, apprese dal Vescovo la verità, lo perdonò e acconsenti’ al matrimonio, concedendogli tutti i terreni che Aleramo avrebbe potuto percorrere a cavallo, senza sosta, in tre giorni. Da qui nacque il territorio del Monferrato. Dall’ unione di Aleramo con Alasia nacquero tre figli maschi, Ottone, Anselmo, Guglielmo e una figlia femmina. Alla sua morte, come vuole la tradizione, venne sepolto nell’abbazia di Grazzano, da lui fondata nel 961.

La “Charta Offersionis”.

 

I fondatori dell’Abbazia di San Quintino furono il figlio di Aleramo, Anselmo, con la moglie Gisla ed i nipoti di Aleramo Guglielmo e Riprando, figli del fu Ottone, fratello di Anselmo. Presenziarono all’atto di fondazione un Conte del Comitato di Acqui, di nome Gaidaldo, cinque testimoni, due giudici e due notai. Il documento  venne firmato nel castello di Visone, evidentemente perché gli Aleramici non avevano il controllo su Acqui, che era governata da un vescovo con il consenso dell’imperatore. L’atto di fondazione è scritto nel latino del X secolo su una pergamena, la Charta offersionis, attualmente custodita presso la biblioteca civica “Anton Giulio Barrili” di Savona. Tale documento viene citato e  riportato in copia dal Malacarne ( 1744-1816) nelle lezioni accademiche “ Della città e degli antichi abitatori d’Acqui”. Una copia sarebbe stata ottenuta dall’abate Giovanni Battista Vasco di Bastia, il quale l’avrebbe estratta dall’archivio di Savona il 28 aprile 1786. Tale circostanza è confermata dal Moriondo( + 1794) nel suo libro Monumenta Acquensia. Il Moriondo stesso poté visionarne  una copia, estratta da una pergamena del XIV secolo e consegnata al vescovo Giuseppe Antonio Maria Corte. La provenienza della pergamena fu riferita a Giovanni Tomaso, fratello di Don Belloro, Vicario generale della Diocesi di Savona, il quale avrebbe trovato tale documento tra le vecchie carte di proprietà della famiglia, e lo avrebbe trascritto con cura e con la massima fedeltà al testo originale. Il Moriondo avrebbe molto volentieri desiderato confrontare la copia con l’originale, ma non gli fu consentito. Il documento viene citato come “prezioso” dal Muletti, ( 1756-1808), che riporta quanto affermato da Malacarne e Moriondo. Il Poggi( 1833-1914) nel suo testo riporta che entrambe le copie provenivano da una stessa antica pergamena conservata a Savona.

Dopo la morte di don Belloro ( 1821 ), archivista del comune di Savona, la pergamena non venne più reperita. Successivamente il cav. Giovanni Battista Minuto ebbe la fortuna di ritrovarla in Cairo Montenotte, presso una famiglia savonese, la acquistò e, in data 9 novembre 1911, la donò alla biblioteca civica “ Barrili” di Savona. Sempre il Poggi, sostiene che la pergamena ritrovata dal cav. Minuto sia, senza dubbio, l’originale da cui vennero trascritti i documenti utilizzati dal Malacarne e dal Moriondo.

Dall’analisi dei due documenti riprodotti, nonché da errori di trascrizione, sorge un dubbio: la pergamena di Savona descritta da mons. Belloro, sarebbe una copia del secolo XIV, quella ritrovata dal cav. Minuto sarebbe antecedente, sincrona con l’atto di fondazione dell’abbazia. A tale conclusione sarebbero giunti diversi studiosi. Secondo il prof. Costamagna, cultore di scienza paleografica e già direttore dell’Archivio di Stato di Genova, è stata scritta in latino con una scrittura minuscola notarile del X secolo. Secondo altri presenta caratteri di scrittura carolingia del X secolo.

Il testo, tradotto con aggiunta di punteggiature, maiuscole come da lingua italiana, inizia con un esordio che mira a giustificare la fondazione di una nuova abbazia con motivazioni di ordine religioso, tali da indurre la pietà di Dio sui fondatori, affinché possano, dopo la loro morte, essere accolti tra i giusti in Paradiso. Segue l’atto di donazione stesso, con i riferimenti ai donatori, al luogo e a chi verrà dedicata la nuova abbazia.

….Noi consorti e fratelli, zio paterno e nipoti, dichiariamo che il predetto defunto Oddone, genitore e  nostro fratello, desidero’ ardentemente fondare un Monastero nel luogo e fondo di Spigno, nei pressi del colle detto di San Quintino, in onore di Dio (Gesù) Salvatore, dell’apostolo San Tommaso e di San Quintino, martire di Cristo. Perciò noi suddetti consorti e fratelli, figli del già nominato Oddone, con propri nostri mezzi, a nostre spese e con sussidi al fine di salvare l’anima sua, la nostra è quella di tutti i fedeli fondiamo in questo istante lo stesso Monastero in onore di Dio Salvatore e dei sopraddetti Santi, ad uso degli abati e dei monaci  che ora son da noi posti ovvero di quelli che verranno d’ora in poi per divina chiamata. Inoltre, allo scopo di accogliere e proteggere gli ospiti e i pellegrini, noi doniamo ed offriamo i nostri beni così come attualmente sono compresi nei singoli luoghi…..

Oltre alle motivazioni religiose, occorre evidenziarne anche altre, molto più terrene. I fondatori dell’abbazia avevano nell’abate e nei monaci dei sicuri alleati ai confini della marca aleramica. In contrasto col vicino Comitato di Acqui, infatti il controllo del Monastero era affidato al Vescovo di Vado e non alla sede vescovile più vicina. Analoga situazione si era già verificata nell’abbazia di Grazzano in cui i vescovi di Vercelli e di Asti erano fortemente impediti nel controllo, che veniva invece affidato al vescovo di Torino.

Il testo prosegue con la descrizione dei beni conferiti all’abbazia; centodieci iugeri nel sito stesso, confinanti con la Bormida da due lati, cinquecento jugeri nel territorio di Piana Crixia, che rappresentavano un vero e proprio latifondo, pari a 125 ettari. Tra i beni offerti al Monastero di San Quintino vi era l’abbazia di Pulcherada, dedicata a San Mauro ( ora San Mauro Torinese) , compresa ogni costruzione annessa e ogni persona ad essa dedicata, quali servi ed aldi. L’abbazia era in uno stato di totale abbandono, per devastazione dovuta a uomini malvagi. San Quintino ricevette l’eredità spirituale, così come i beni dell’abbazia di Gesù Salvatore, che si trovava nel territorio di Giusvalla; ciò in seguito alla distruzione della stessa da parte dei Saraceni negli anni 933-936.

Questa abbazia era stata fondata, si pensa, da Liutperto, re dei

Longobardi negli anni 700-702. Seguono le località sedi dei territori di pertinenza dell’abbazia di Giusvalla: Bistagno, Melazzo, Cugnasio, Placiano, Sambalasco, Strevi, Sezzadio, Carpeneto, Ovada, Monteggio, Pobiano, Campale, Cassine, Campaniano, Monticello, Sinio, Artonzo. Altri beni campestri vennero citati nella Charta in quanto donati al Monastero, con relative superfici. Il Bisio ne riporta un lungo elenco con relative estensioni per un totale di centotrenta fattorie e beni campestri situati in quarantasei luoghi. Si citano nel territorio di Spigno dieci mansi, di Visone cinque mansi, di Ovrano un manso, di Prasco un manso, di Grognardo tre mansi, di Morbello tre mansi, di Ponzone sette mansi, di Pareto tre mansi, di Albisola quattro mansi, di Alice tre mansi , di Lintignano tre mansi, di Mombaldone otto mansi, di Noli cinque mansi, di Serole tre mansi, di Masone dodici mansi, di Perletto e Olmo sette mansi, di Cortemilia dieci mansi, di Dego tre mansi, di Cairo undici mansi, di Cosseria sette mansi, di Torre sei mansi, di Rivalta cinque mansi, di Loesio cinque mansi.

La donazione di tali beni, secondo la Charta, è da considerarsi perenne e stabile nel tempo, come hanno deciso i marchesi fondatori. Le rendite provenienti dai terreni sono destinate all’abate e ai monaci, che li possono utilizzare secondo le proprie esigenze, senza temere alcun tipo di rivendicazione o opposizione da parte dei fondatori, nonché degli eredi. Il testo precisa inoltre specifiche disposizioni a tutela dell’abbazia: è categoricamente fatto divieto al vescovo di Acqui o qualunque altro vescovo, nonché altra autorità ecclesiastica, di esercitare alcun tipo di amministrazione sul monastero, sia di tipo civile, che economica. Qualora chiunque volesse togliere rendite al Monastero, la giurisdizione ritornerà ai marchesi fondatori o ai loro eredi; ciò fino a che sia ristabilita la volontà degli stessi. Su tali persone, che si mostrassero antagonisti all’abate o ai monaci o che a questi sottraessero le rendite dei citati beni, giunga la maledizione e la dannazione del papa, con condanna a soffrire le pene eterne con Giuda. Nella Charta vi e’ l’ordine che il monastero resti sotto la giurisdizione del vescovo di Vado: “ Questi benedirà l’abate e somministrerà il crisma. Se questi chiederà dei doni per tali servizi, l’abate e i monaci potranno ricorrere all’autorita’ del Sommo Pontefice per scegliere qualsiasi vescovo di loro gradimento. Potranno altresì rimanere sotto la protezione del Sommo Pontefice, ma questi, come gli altri, non ha diritto a chiedere donazioni, ne regali”

La Charta si conclude ribadendo che i beni sono stati donati al Monastero integralmente, secondo il rito salico; questo prevede che la consegna all’abate avvenga con un coltello, un guanto è una bacchetta con nodi. Tali formalismi legati alla legge salica esprimono il concetto di potere diretto e assoluto. Sono presentati anche un ramo d’albero è una zolla di terra, indicanti sia il terreno, che la superficie con il raccolto. Infine “ nulla i fondatori rivendicano ora, ne’ rivendicheranno in futuro. Abbiamo elevato da terra la pergamena con il calamaio e così l’abbiamo consegnata a Gervino, notaio e giudice del sacro palazzo, pregandolo di redigerla; dopo averla sottoscritta, l’abbiamo anche presentata ai testimoni affinché la sottoscrivessero”.

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