Ormai prive dei lori preziosi grappoli , le vigne rosseggiano e ravvivano con i lori colori caldi ĺe giornate ovattate dalla nebbia che si fonde con l ‘ orizzonte , che sgrana i contorni , che aleggia a mezz’aria e imperla il verde e gli ultimi pampini…
…e i filari lunghi ,ordinati e solitari che pettinano i pendii mi ricordano altri filari, altre vigne…
La tradizione vitivinicola a Cà de Scaleta, non lo so per certo, ma ha avuto inizio da mio nonno Domenico, detto Miclan classe 1880 ed è continuata con mio papà Celso classe 1920.
Mi reco nella cantina per cercare un vecchio coppo, quella ancora con una parete di tufo e pietra.
Apro la porta che cigola lievemente, cerco di accendere la luce, ma lampadina penzola bruciata in fondo al filo, quello intrecciato di una volta .
Non importa.
Dalla finestra entra un filo di luce che taglia la penombra polverosa ed io non faccio fatica a far correre lo sguardo attorno..
Sul quadrato di pavimento appena dopo l ‘ ingresso il tempo ha impresso il marchio del suo lavorio sgranandolo e disegnando un grosso cuore …Poiché niente avviene per caso, capisco il suo messaggio che mi vela un po’ lo sguardo, ma non mi impedisce di vedere una montagna di damigiane accatastate le une sulle altre, che le forti braccia di papà hanno spostato, sia piene, sia vuote chissà quante volte , il torchio ormai smontato , il cui ingranaggio giace vicino a un vecchio aratro dal vomere arrugginito.
Istintivamente cerco la porta che collegava la cantina alla casa, ma mi ricordo che è stata murata tanti anni fa. Lungo quella parete sono appoggiate le botti di legno…gli sportellini aperti sono bocche da cui non esce quel buon vino di un tempo , non parole ma ricordi, tanti ricordi, tanti momenti che non racconterò …sarebbero troppo tediosi da leggere.
Esco.
Riguardo il grande cuore.
Richiudo la porta e con essa ricaccio indietro i ricordi, ma essi mi seguono attraverso la fessura come il profumo del mosto in fermento che invadeva la casa al tempo della vinificazione: era l ‘ odore al tempo stesso della fatica, dell ‘ amore verso il duro e continuo lavoro e della ricompensa.
Realizzo che devo lasciare una traccia di tutto ciò dato che sono l’ ultima testimone della mia famiglia ad aver vissuto quel periodo di civiltà contadina semplice ,onesto, faticoso ma appagante.
Mi avvio al margine del giardino.
Calpesto il terreno su cui cresceva il primo lungo filare della vigna più vicino a casa,quella in pendenza, quella che produceva
l ‘ uva migliore perche al ” surì ” , al sole tutto il giorno, quella in cui mi recavo fin da quando ho mosso i primi passi a ” pitulè ” , a cercare i primi acini maturi e gli ultimi rimasi fra i tralci dopo la vendemmia, quella dove mi trovarono addormenta ai piedi di una vite sfinita dal girovagare e dalla calura.
Ridisegno mentalmente le altre tre…
…quella più lontana con il pozzo a bilanciere da cui dovevo stare lontana come il diavolo dall’ acqua santa, quella con il grande melo dei ” pum ciuchen ” mele rosse fragranti e deliziose al morso.
Risalgo verso l ‘ altra, ancora sotto casa , dalla forma ad anfiteatro, quella con il grande caco nel mezzo dei filari che ad autunno inoltrato, privo di foglie, carico di frutti era bello come un albero di natale addobbato con tante palline arancioni.
Sarà stato per quello che a scuola con i miei alunni ho sempre preferito addobbare un albero secco piuttosto che un verde abete.
Infine mi soffermo là dove c’ era la vigna più piccola, vicino alla strada, quella con il pesco settembrino dai frutti con la polpa bianca e rosata dal sapore divino, quella i cui acini davano un succo così rosso e intenso che mi disegnava finte ferite sulle mani e sulle braccia che ingannavano e spaventavano tanto mia nonna Clotilde.
Ora al loro posto c ‘è una distesa di erba incolta che ondeggia sempre lievemente sotto la forza del marino , mentre tutt’ attorno le foglie delle gaggie muovendosi sembrano applaudire un tempo neanche troppo lontano a Cà de Scaleta.
I ricordi possono stare sopiti a lungo, poi basta un nonnulla per farli rivivere intensamente.