A Spigno, nel ‘600, ai tempi della peste di manzoniana memoria, si svolse un processo per stregoneria. Il primum movens, come in altri casi, era – di fronte al contagio e alla morte incombente – il bisogno di trovare motivi e responsabili. Stante l’ignoranza sulle cause effettive, la superstizione aveva ampio spazio. Si creava pertanto un percorso credibile, in grado di riconoscere la presenza di un nemico invisibile, che indicasse alla gente i presunti colpevoli della strage. La grande congiura, che si credeva messa in atto da persone, forniva una spiegazione molto più accettabile di quanto non risultassero il castigo divino o le perfide congiunzioni astrali, ecc. Individuare i colpevoli, chiarire la loro strategia, individuarne le armi, consentiva di avere un atteggiamento attivo, esercitare una difesa, trasformando il terrore in odio.
Nel 1631, mentre il morbo imperversava in tutta l’Italia settentrionale, con ristagno dell’economia, abbandono dei campi e popolazione alla fame, si crearono le condizioni più favorevoli per un processo di stregoneria a carico di alcune donne. Analizzando i documenti epistolari conservati all’Archivio Vescovile di Savona emerge lo scontro tra due “giustizie” diverse, laica-feudale e religiosa, entrambe gelose delle loro prerogative e del relativo potere. Al punto da registrare unacontrapposizione tra la Giustizia di Stato e la Giustizia di Chiesa.
Il 9 luglio 1631 il Procuratore fiscale della Curia riferì al Vicario foraneo Giovanni Verruta la denuncia di “cristiani e cristiane poco timorate di Dio …..”. L’accusa era stata levata contro persone abitanti fuori dal borgo, per la precisione alla Rocchetta.Da lì in poi ogni passo seguì la procedura prevista: interrogatori, testimonianze, ulteriori accuse sulle basi di dichiarazioni soggettive, tortura. Nel contempo si accentuavano i contrasti tra i due poteri; il potere temporale del Marchese, che voleva procedere all’esecuzione delle “streghe” per pressioni da parte della popolazione, desiderio di vendetta, paure; dall’altro il potere ecclesiastico, che reclamava a sèstesso l’idoneità e la capacità di esaminare questioni di eresia, stregoneria ed, eventualmente, procedere ad una condanna. La giustizia ecclesiastica si dimostrava in sostanza più prudente, moderna, rispettosa della procedura, ingiungendo alla giustizia laica di astenersi dalle esecuzioni. Le accusate, però, imprigionate sotto la giurisdizione del Marchese, nel frattempo morirono, non si conosce per quali cause.
Nel 1632 l’aggressività del morbo si stava attenuando, l’agricoltura riprendeva, la popolazione soffriva meno la fame e i pensieri del Vicario foraneo Giovanni Verruta erano indirizzati altrove. A Spigno la vicenda delle streghe e del processo venne rapidamente dimenticata. Col passare del contagio tutto il paese cercò di allontanare il ricordo del processo che, probabilmente, aveva chiesto e voluto. Scomparve dalla memoria collettiva così bene che nulla è rimasto nella tradizione orale, fino alla riscoperta del carteggio nell’Archivio Vescovile di Savona da parte degli storici Adolfo Francia e Leonello Olivieri e alla ricostruzione pubblicata da Antonio Visconti. A questi deve essere aggiunta la tesi di laurea discussa dall’attrice spignese Michela Marenco. A tutti loro va il merito di aver fatto conoscere di recente la vicenda.