Ed era un pezzo, bisogna sapere, che il Comune di Ponti stava cercando un segretario nuovo. Al sor Pepe venne un’ispirazione: propose il sor Monti, specificando. A lui non aveva voluto dir nulla, perché non era sicuro. Allora quelle cose si facevano alla svelta: Ponti propose, Acqui approvò; e un bel giorno il sor Bortomlin, chiamato dal messo, venne in Comune per sentirsi dire dal cavalier Pepe – raggiante e sostenuto- che….per quel posto di segretario, sapeva, s’era provveduto; e che a quel posto era stato chiamato lui, Bartolomeo Monti. Sicuro.
– Ma ma ma…
– Ma niente. Il Consiglio delegato ha proposto, il Consiglio plenario ha approvato, l’intendenza ha ratificato. Tutto fatto. Niente da dire. Domani lei entrerà in carica.
E l’indomani Papà entrò. E non ne uscì che venti anni dopo. E così non ne fosse uscito mai più.
Quando il sor Bortomlin, la prima volta, pose piede in quell’ufficio come segretario subentrante, la prima cosa che vide su quella parete, sotto il ritratto di re Vittorio fu un gran tabellone, applicato la’ con quattro punte: “ Prospetto dei lavori periodici da eseguirsi in questo comunale ufficio “; l’intestazione era in gotico; sotto, in corsivo inglese fitto fitto, v’erano tante colonne perpendicolari; e in capo a ogni colonna, in rotondo, delle intitolazioni così: “ Ogni giorno, ogni mese, ogni bimestre. Mese di gennaio, mese di febbraio, ecc.”. Papà, in piedi, il sindaco, il sor Pepe. Si voltò a guardar lui. L’altro capi’ :
– È sempre stato lì. Ma il lavoro che faceva quell’altro capitando qui era di guardar bene il tabellone, come fa lei ora, di leggerlo due o tre volte: poi si grattava la testa, facendo il giro della stanza zufolando un pezzo; e tornava ad uscire.
Papà sorrise. Il sor Pepe rimase serio; e continuò:
– Faceva come quella tale, una guardarobiera a palazzo Carignano: “ tanto da fare, tanto da fare “ e, per non saper che cosa fare prima, tornava a letto. Dia retta a me, sor Bortomlin, non si spaventi del tabellone: lo lasci lì per figura: cose segnate sopra c’è n’è tante, ma quelle che contano veramente sono poche; e magari non ci sono neanche scritte. Tutto sta nell’ incamminarsi in ogni cosa, poi andando si aggiusta la soma.
L’aveva preso sottobraccio e faceva per portarlo via. Ma gli venne in mente una cosa. Tornò a quel tavolino: – Un momento che cerco…- aveva tirato a se’ il cassetto, – qui nell’archivio, – ficcate le mani la dentro diguazzava tra le carte, – una cosa…: ecco …- aveva tratto di la un foglio, ripiegato ai lembi, addentellato agli orli di suggelli di cera, e l’aveva porto a Papà.
– Veda un po’ lei; c’è anche del latino.
Papà scorse, inarcò le ciglia, sorrise:
– Oh, oh! Rattazzi ! Fa il cattivo!
– Ha visto il latino?
– Già: oremus pro Rege: preghiamo per il Re.
– Ah? Già? E, dica un po’, – lo guardava fisso, con intenzione, – cosa risulta a lei? Che lo reciti questo oremus l’amico lassù?
– Ma lei a messa ci va, mi pare.
– E ci va anche lei, scusi…
– Sì; per andare ci andiamo tutti; ma…Beh! Senta: lei mi prepari due righe: rispondiamo che si…a buon conto, poi…
– Però, però…perdoni, ma…una lezione…a qualcheduno non istarebbe mica male…Questi preti…Il nostro qui anche lui: l’altro giorno ancora, che il Conte di Cavour della Transatlantica a Gibilterra ebbe quell’incaglio, ebbene, in piazza strepitava che “ci aveva piacere”, che “era il dito di Dio!”.
– Che sia un ignorante colui siamo d’accordo. Ma, anche Cavour, insomma, vivo e verde, lasciarsi intitolar dei bastimenti, via…Eh! A palazzo lo dicevano…
– Palazzo palazzo: si sa bene che lassù non lo posson vedere…
– Lei, sor Monti, a toccarle il suo Cavour anche il contegno perde, mi permetta. Ma lasciamo andare: si parlava dell’oremus e del parroco qui di Ponti. Denunciarlo…come vuole la circolare? Si fa uno scandalo, e non si conclude nulla. I giudici li assolvono tutti. Ha visto il parroco di Alice, e quel di Castellazzo? Dappertutto: lo fa apposta la Magistratura per far dispetto a Rattazzi.
– Quella grinta…
– Già: Lord Siratut, ( Ammaccatutto), come lo chiama Vittorio.
– Un alessandrino; che, anche lui, non è poi mica farina da far ostie.
– Manco male! Dunque, siamo d’accordo: lei mi prepara quelle due righe: diciamo di sì, che recita l’oremus, che delle Istituzioni non si incarica, che i parrocchiani male non gliene vogliono. E così lo lasciamo cuocere nel suo brodo. Poi, se scarta, una bella volta che mi capiti, prendo il sere a quattrocchi e…l’oremus, lasci fare, glielo intono io; e vedrà.
Aveva risposto, richiuso, aveva ripreso sottobraccio Papà ed erano usciti al sole, continuando a ragionare:
– Sa, le dicevo, in un Comune quel che conta? Sono i conti. È la roba che importa: quello che c’è quello che non c’è, quello che esce quello che entra. In qualunque momento poterne dare ragione a chisissia. Danaro degli altri! Questa buona gente si fida di noi: ragion di più per essere scrupolosi. Vorrei piuttosto fregare quei di Acqui, in quell’Intendenza, che tutti gli anni diventan più aguzzìni e non so dir perché. Ma questi poveri coticoni qui…arricciano il naso solo quando sentono parlare di gabelle; e han ragione del resto: è un po’ che gira questo torchio. E perciò andar adagio noi, qui, con le spese; non fare il passo più lungo della gamba: e perciò sapere la misura della gamba. I conti, come le dicevo: che siano in ordine; entrate, uscite; i “bilanci” come dicono adesso. Il sor Franzoni, il notaio, quello è vecchio, di altri tempi, mai voluto sapere di novità. In questi ultimi anni poi ha sempre fatto più malvolentieri quel mestiere, solo aspettando il momento di essere sostituito. Ho paura, ma la dentro, di registri, di conti, di numeri in colonna troverà poco; o nulla. Del resto, in fondo, manco male. In queste cose qui è meglio far di nuovo: meglio far di nuovo che rifare, o rivoltare o rattoppare – sorrise, – era anche l’opinione di quella là…
– Della guardarobiera? Quella che tornava a letto?
– Già. Una volta…- ora passavano presso una casa, l’ultima del paese; abbassarono la voce; più in là una risata: erano fuori; poi più forte, il sor Pepe:
– Tre volte balia a Parigi; tornava: toujours vierge!
da La storia di papà I SANSOSSI