Masche ed Varianda

di Marina Levo

LA FEJA.

“Con la mia voce al Signore grido aiuto, *
con la mia voce supplico il Signore:
davanti a lui effondo il mio lamento,
al suo cospetto sfogo la mia angoscia.
Mentre il mio spirito vien meno, *
tu conosci la mia via.
Nel sentiero dove cammino * 
mi hanno teso un laccio.
Guarda a destra e vedi: *
nessuno mi riconosce.
Non c’è per me via di scampo, * 
nessuno ha cura della mia vita.”

Non sapeva Vittorio, nativo di Castelnuovo Belbo, che i cinquant’anni che avrebbe passato lassù non erano decenni qualunque, ma avrebbe accompagnato i suoi fedeli attraverso fatti terribili, sempre più terribili.
Non sapeva, ne’ poteva sapere, quanti di loro sarebbero stati ingoiati dalle guerre, con il pensiero di difendere la patria dall’invasore ( ma quale invasore?), strappati ai campi, alle loro vite semplici nelle viti e negli orti, per morire in ogni dove, come quel Giovanni ****** , di Varianda, si il fratello di Maria Marcella, di Francesco e Quintina. Era partito per la Libia, ma cosa era la Libia? Da Varianda si vede Ponti giù in basso, la vallata, una macchia verde tutto intorno dei boschi di La FEJA, ma niente che facesse pensare ad un paese dell’Africa.

Un giorno Giovanni era partito, aveva baciato la mamma e le sorelle, perché la patria aveva bisogno di lui. Era passato a salutarlo, dopo la messa, col capo chino, i baffi, la sigaretta tra le dita e quello sguardo birichino, di un giovane che amava celiare. “ Parto don Vittorio, beneditemi, come vuole me mama. Prendo la nave, la patria mi chiama per conquistare un impero”, sorrideva al pensiero di essere un uomo ormai, di partire per posti lontani. Un bel giovane Giovanni, come belle le sue sorelle, peccato per Caterina, sua madre, che aveva fama di masca potente.

Lui aveva presa l’originalità della mamma, il senso dello scherzo, talvolta gli altri gli stavano distanti, non si poteva sapere cosa si sarebbe inventato quel bandarola.

“ Che Dio ti benedica Giovanni”, cosa poteva saperne Giovanni di un impero? Per lui l’impero era quel lato della collina che guardava verso il Monviso nelle giornate limpide dell’inverno, quando rimaneva incantato dalle montagne coperte di neve, con le pecore che brucavano l’erba mentre faceva ridere le matote che sorvegliavano le loro, sorvegliate a loro volta da madri o fratelli.

Caterina sembrava pazza quando bussò alla porta della Canonica. Giovanni era partito da sei mesi e tanto tranquilla non era, si sentiva strani pensieri in testa: una notte lo aveva visto, il suo Giovanni, nel letto di morte chiamarla disperato. Si era svegliata angosciata, aveva fatto il segno della croce, aveva pregato il Signore, ma il Signore ascolta una masca? Una masca lavora per il demonio più che per il Buon Dio…

“ Don Vittorio! Don Vittorio! Leggete qui… leggete qui”

Era scarmigliata proprio come una masca Caterina di Varianda, teneva in mano una lettera

“Nell’anno del Signore 1913, presso Bengasi, in terra di Libia, moriva ****** Giovanni

di anni 23, a causa di peritonite”

Un certificato dell’esercito recitava così, di come il suo Giovanni, mai uscito da Varianda, era morto in una terra calda e straniera, in una infermeria da campo, per peritonite, tra febbre altissima ed atroci dolori, chiamando la sua mamma, come tutti i cristiani in procinto di lasciare questa terra.

“L’eterno riposo dona lui o Signore…” riuscì a balbettare don Vittorio, stringendo a se’ Caterina, che piangeva a dirotto, altro che masca, ora di ammascato niente sembrava esserci, solo quel povero figliolo che non avrebbe più fatto ritorno…

“Aiutatemi don Vittorio, aiutatemi, io di male non ne ho mai fatto, voi lo sapete. La mia vicina, Marieta, che va dicendo tanto male di me, dice che il me fieu me l’hanno ammazzato perché faceva degli scherzi, faceva il gadan, ma leggete, leggete, voi che sapete leggere, ditemi come è andata……”

Don Vittorio Dagna pianse con Caterina, glielo disse di quel male feroce senza scampo, le diede una benedizione.

“Vi accompagno a casa, le vostre fie saranno in pensiero”

Prese la donna sottobraccio e silenziosamente si avviarono giù dalla discesa che va dal cimitero, fino a Sant’Anna per poi giungere alla cappelletta di San Michele e girare per la Varianda. Era quasi buio, da in Ca di Salamon era venuto giù Bartumlein che li aveva accompagnati per un pezzo, il prete e la donna in odore di masca. Nel crocchio di case c’era la loro, in cucina Marina e Quintina, due ragazzette brune, dalla bellezza delicata, due brave matote, che si vergognavano della fama di masca della loro madre.

“Il Signore ci ha puniti, Quintina, il Signore ci ha puniti” diceva la maggiore,  che di nome faceva Maria, ma tutti storpiavano in Maina anzi Marina. Quintina era più minuta, teneva in mano il suo cucito, piangeva e cuciva, come avrebbe fatto per molti anni ancora, quando avrebbe aperto un piccolo negozio di sartoria a Ponti e l’avrebbero chiamata “ la Moda”, certo ancora avrebbe pianto, dopo aver sposato un vedovo con figli, ferroviere non contadino di certo, ma un po’ troppo amante della bottiglia, ahimè. Marina avrebbe sposato un buon uomo, Carlein, tornato vivo dopo 4 anni di guerra del 15/18, avrebbe versato le sue lacrime anche lei e la salute non l’avrebbe sorretta con l’andare del tempo. Ma ora erano lì, in quel 1913 tra Castelletto e Montechiaro, con un prete che sorreggeva Caterina e le invitava a pregare, pregare per quella povera anima. Di lui sarebbe rimasto solo un ritratto, niente sarebbe ritornato, sepolto in terra straniera, forse riesumato e disperso decenni dopo per decisione di Gheddafi.

Don Vittorio si fermò a pregare con le donne del vicinato ancora un’oretta, poi, scorato e stanco, intraprese la via del ritorno. Appena girata la curva in salita, nella notte gli apparve un’ombra, un uomo piccino dal viso arguto, dagli occhi brillanti alla luce della luna tonda e luminosa..

“Siur preve? I sei vui?”

“Carlet mi hai spaventato, ma da dove vieni?”

“Dan veggia Don Vitorio, iei senti la nuvito’? L’è mort Giuane ed Varianda, pover fanciot, povera famia.”

“Buona notte Carlet è tardi, vado in canonica”

“Eh don Vitorio, a se nenta se i truverei la stro per ande’ a ca”.

Carlet, Caterina, il povero soldato morto a Bengasi, la luna piena, le ombre degli alberi che si allungavano davanti a lui, don Vittorio cominciò ad avere paura… come senza accorgersene si ritrovò nel folto del bosco, tra castagni, roveri, gaggie, non riusciva a passare.

“O Signore Iddio dove sono?” Intorno a lui gli alberi sembravano chiudergli la strada, un vento forte lo faceva rabbrividire e lo tormentava il pensiero della strada del suo ritorno.

“Dove sono? Che succede? Carlet dove sei? Ci sei ancora? Aspettami!”

Un gemito vicino lo fece sussultare, don Vittorio si voltò e dietro lui un caprone grande e scuro lo scrutava belando…. Come faceva a stare lì, nel folto del bosco? Don Vittorio cerco di mettere a fuoco le parole dell’esorcismo che aveva usato il mese prima per cacciare le masche da in Casa dei Cotti. Preghiere, preghiere, preghiere, il capro, la luna, Carlet, Caterina, gli affollavano la mente questi pensieri vorticosamente, mentre pronunziava le formule di rito per allontanare il demonio.

Improvvisamente la calma, la luce dell’alba cacciò tutte le presenze inquietanti e Vittorio, stringendo la corona del Rosario, si avviò verso Sant’Anna, con la tonaca stracciata, graffi sul viso. Si voltò solo una volta e gli parve di vedere due figure lontano, un uomo ed una donna che lo osservavano sorridenti. Dopo quella notte terribile, il prete si stese sul suo letto e dormi’ profondamente. Sognò stranamente Carlet, lo sogno’ in punto di morte, mentre cercava qualcuno a cui lasciare il suo “pentolino”. Non trovando nessuno lo mise ai piedi di un noce. Tanti anni dopo, celebrando il funerale dell’uomo, gli si avvicinò Pierino che gli disse : “ Don Vitorio, don Vitorio, Carlet l’ha lasciò el pignatein suta na nusc e stanoc la nusc l’è secoia “

“L’eterno riposa dona loro o Signore…”

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