Attraversando gli anni di piombo. Da Merano a Castelletto d’Erro

Manuela Tomisich Psicologa psicoterapeuta Docente di psicologia in Università Cattolica e in Università Bicocca Milano

di Marina Levo

La mia testimonianza parte dall’essermi fatta tutto il Sessantotto in quel di Milano, nell’occhio del ciclone. Sono arrivata a Milano, dai monti del Tirolo: io venivo dalla montagna dell’Alto Adige, sono Altoatesina. Finito il liceo potevo scegliere dove frequentare l’Universita’, io ho fatto il doppio liceo: a Bolzano quello italiano e a Merano quello tedesco. Ho potuto scegliere tra l’Italia e l’Austria ed ho scelto l’Italia, un po’ anche  perché avevo già conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito.

Come hai conosciuto Michele?

 Quando frequentavo l’ultimo anno del liceo tedesco, insegnavo italiano ai Tedeschi  e tedesco agli Italiani , adulti.

Come era strutturato il liceo, era bilingue?

 No, in realtà io facevo un pezzo di uno e un pezzo dell’altro. Avevo diciotto, diciannove anni, io sono nata nel  1948. Mi potrei definire  “ pura razza bastarda”  perché nasco a Merano da padre Jugoslavo, più avanti si è specificato che era un Croato. Mia madre era una ebrea del ghetto di Ferrara. Mio nonno materno era cresciuto in casa Matteotti, nato a Fratta Polesine e cresciuto nella grande casa dei Matteotti, che erano latifondisti.

Matteotti proprio quello del delitto Matteotti?

 Sì il Matteotti che fu ucciso dai fascisti. Mio nonno credo fosse nato nel 1896, nella prima guerra mondiale era nello stesso battaglione di Sandro Pertini: erano i soldati mandati avanti a morire, perché non erano allineati. Quando morì mio nonno, Pertini inviò personalmente un riconoscimento al funerale, perché erano stati molto vicini.Io nacqui  a Merano, che all’epoca era un’area particolare. La famiglia di mia madre fini  a Merano,  era  una delle prime famiglie italiane, arrivate nel 1938, una grande famiglia come lo erano le famiglie ebree, con zii, cugini… suo padre, mio nonno,  fu praticamente mandato al confino con la sua famiglia, in un Alto Adige che era terra di confino. In questa famiglia allargata era presente il fratello di mia nonna materna, che si chiamava Rosa,  lui era stato uno dei primi “fascistoni”. A Ferrara questa condizione non era inusuale:  anche un podestà, molto importante per la storia della città, era un ebreo, podestà ebreo molto amato che dovette poi scappare all’avvento delle leggi razziali. Mio nonno materno era socialista, lo zio fascista. La famiglia gestiva la Privativa, la posta dei cavalli, vicino a Ferrara, in un luogo che ancora oggi ha il loro nome, Rumiatti. Questo zio fascista vendette questa proprietà per andare in Spagna a combattere col generale Franco. Mia nonna, sua sorella, sposata con un socialista, fu costretta a spostarsi in un posto dove non si dovesse  prendere la tessera del fascio. L’unica volta che, si racconta, mio nonno si arrabbiò tantissimo con mia nonna, fu quando lei, per paura che i fascisti portassero via il figlio, diede la sua fede d’oro alla patria. Mio nonno non ci vide più. Negli anni Cinquanta, ero bambina, su sollecitazione delle figlie, il nonno regalò una altra fede d’oro alla nonna.

Essere in Alto Adige ha cambiato qualcosa per questa famiglia ebrea?

 In parte si, perché mio nonno, anch’egli ebreo, pur di una famiglia più povera,  cominciò a lavorare nel settore delle costruzioni, faceva il capomastro, con un capo altoatesino che lo apprezzava molto.
Uno dei nomi che si tramandavano in famiglia da generazioni era Amos, il mio defunto fratello si chiamava Amos. Mio nonno ebbe la protezione di questo imprenditore, mia nonna invece era costretta spesso a nascondersi, insieme a mia mamma e alle figlie. Probabilmente lo zio “fascistone”, importante in Alto Adige, riuscì a salvaguardarli, una camicia nera particolare in luoghi particolari, di confine, in cui poteva capitare di tutto.
Mio padre era stato un atleta, era andato anche a Roma per delle gare, ma fu arrestato e deportato in Germania, prima a Dachau e poi a Buchenwald e qui rimase a lungo. Lui parlava perfettamente italiano,tedesco,  sloveno, croato, russo e inglese e fu utilizzato come interprete.Ti racconto questo episodio, documentato negli archivi della Shoah: mentre era in coda per il rancio,nel campo di concentramento, l’uomo che era davanti a lui si chinò a raccogliere qualcosa per terra e il capo del campo lo colpì al capo col calcio del fucile e lo uccise. Mio padre non ci vide più e lo picchiò, spaccandogli gli occhiali. Essendo utile come interprete, non fu ammazzato, ma subì un processo per direttissima e lui si difese, questo è interessante, dicendo che un uomo così importante del popolo tedesco, trattasse in quel modo un essere inferiore come quel calabrese, a lui sembrava una cosa insopportabile. Questa tesi lo salvò dall’impiccagione, ma gli costò cinque anni di lager punitivo e venne portato a Buchenwald, sottoposto a terribili prove ed angherie. Sopravvisse al lager. Arrivarono i Canadesi ed evacuarono il campo. Mio padre cercò di tornare a casa sua, in Jugoslavia, dove c’era una situazione pazzesca in quel 1945. Non trovò più nessuno a casa sua, erano quattro fratelli e una sorella. Venne a sapere che sua madre era nel  campo profughi russo a Trieste. All’epoca  la città era metà sotto il controllo russo e metà sotto il controllo americano. Riuscì ad ottenere dal maresciallo Tito l’autorizzazione per visitare la madre per 24 ore  in quella parte della città, sperando di trovare anche la sorella, che però stava in zona americana. Nella notte mio padre prese mia nonna in braccio ed entrò in zona americana, cambiò immediatamente il cognome da Tomisich a Tomasi e fu spedito a Merano, dove arrivavano i treni carichi di fuoriusciti dai campi dì concentramento e la città era diventata un grande ospedale. In un hotel adibito ad ospedale, mio nonno  lavorò con la Croce Rossa sempre come interprete e venne a sapere che in un hotel vicino c’era un altro Tomasi, ed era suo fratello. Nel frattempo a Merano erano giunte anche sua madre e sua sorella e più avanti si riunì tutta la famiglia, che sostanzialmente era di quelli che sarebbero stati chiamati  esuli giuliano dalmati. Anche io sono una esule giuliano dalmata, perché quando nacqui non avevo la cittadinanza italiana, che all’epoca si prendeva dal padre e lui non l’aveva.La famiglia di mio padre si ricompose a Merano, ma tra il 1950 ed il 1953 emigrarono tutti in Australia.

 Merano è la tappa di un percorso o rappresenta le tue radici?

 È il luogo in cui mio padre e mia madre si incontrarono e si sposarono. Il matrimonio fu celebrato a seguito anche della dichiarazione giurata di mia nonna paterna che lui era battezzato e cresimato a Parenzo, cosa che ho potuto verificare come realmente accaduta. Mio padre non era più ebreo, ma mia madre si,  pur provenendo da una famiglia laica , ma legata alle tradizioni yiddish…( pura razza bastarda ci siamo sempre definiti) e rimasero all’interno di questa comunità cattolica altoatesina piuttosto indipendente. Dopo la mia nascita era prevista la partenza per l’Australia, ma non avvenne mai, non era destino che lasciassimo l’Italia. In casa si parlava italiano, croato, tedesco, yiddish ed eravamo un po’  confusi, mio fratello ed io frequentavamo un anno la scuola italiana ed un anno la scuola tedesca. Eravamo di fronte  a due modelli di scuola completamente diversi: nelle scuole tedesche gli insegnanti erano perlopiù ex soldati. Ho  il ricordo di un insegnante che, per fare stare zitti gli alunni, usava la sua mano di legno sulla testa dei ragazzini, avendo  perso la sua mano per  una bomba durante la guerra. La scuola italiana era diversa: gli insegnanti italiani che andavano a lavorare in Alto Adige avevano una rivalutazione di un terzo rispetto al loro lavoro, ogni tre anni di servizio ne ricevevano conteggiato  uno in più. Erano in genere molto bravi, molte insegnanti erano mogli di militari in servizio in zona. C’erano due modi di concepire la scuola completamente diversi e noi per i primi tre mesi non capivamo nulla, NIENTE. In quel contesto a Merano c’era una rimanenza di antiche famiglie nobili, molti ricchi tedeschi, un miscuglio tipico di questa città. Il fratello di mia madre stava a Bolzano, in un ambiente totalmente differente. Crescemmo in un contesto “strano” : a Merano c’è una zona con uno splendido giardino in cui maturavano i fichidindia, in un microclima assai particolare per la latitudine e sotto crescevano i mirtilli…

A Merano incontrasti Michele…da Castelletto d’Erro

 Io insegnavo…lui aveva undici anni più di me e stava facendo il servizio militare a Merano ed era un ufficiale. C’erano corsi serali di Italiano per Tedeschi e Tedesco per Italiani, a cui partecipavano molti funzionari. Per i Tedeschi era un grosso problema la pronuncia della C ed era il periodo in cui era famosa Gigliola Cinquetti e per un Tedesco era impronunciabile… Molti Italiani avevano necessità di imparare il Tedesco e conseguire un patentino e ho conosciuto lì, per questo motivo,  il mio futuro marito. Lui era stato in Inghilterra per parecchio tempo, conosceva l’Inglese ed aveva voglia di imparare anche il tedesco. Io decisi di frequentare l’Universita’ in Italia a Milano mentre  mio fratello Amos in Austria a Innsbruck. In realtà tutti i miei amici andavano a studiare a Padova, quindi dai monti del Tirolo mi trovai improvvisamente  a Milano nel dicembre del 1967, perché se città doveva essere, che fosse la più grande. Ero alloggiata nel collegio universitario in Cattolica, il Marianum, avendo vinto il posto, perché mio padre faceva l’operaio e quella collocazione  era il non plus ultra. Per poter rimanere al Marianum bisognava dare tutti gli esami e con una altissima media e si aveva diritto al pre salario con cui si pagava la retta. Appena arrivata alla Cattolica, scoppiò subito un problema che agitò gli studenti: l’Universita’ Cattolica aveva aperto la facoltà di medicina a Roma e quindi a Milano ci fu un conseguente aumento delle tasse annuali e nacque una forte protesta, che si innestava su problemi sociali esistenti.Trascorsi tutto  il Sessantotto in collegio a Milano, mentre si formava il movimento studentescoe  si riunivano quasi ogni giorno assemblee di studenti. Contiguo al Marianum c’era l’Agostinianum, altro collegio convitto dove erano alloggiati i ragazzi, anche mio cognato Natale credo sia stato lì in un certo periodo. Qui erano alloggiati  Mario Capanna, Spada… quelli che venivano riconosciuti come leader del movimento studentesco. Capanna era più grande di me. Nelle assemblee, che spesso erano costituite da molti giovani che provenivano da strati sociali modesti,  si discuteva molto di diritto allo studio e di come poteva essere un ascensore sociale. Nel gruppo delle mie amiche del Marianum, solo poche provenivano da famiglie facoltose, molte da famiglie che oggi diremmo povere, operaie.

Tutto sommato il sistema permetteva l’accesso a tutti…

 Il criterio era quello delle borse di studio , del merito. Molte delle studentesse provenivano da famiglie di livello piccolo borghese e quindi i concetti di diritto allo studio, di cultura come  ascensore sociale ,cultura    che apre le porte, erano per noi molto importanti, come la cosiddetta “ teologia della liberazione “. Erano gli anni del regime dei colonnelli in Grecia, anni in cui si passava molto tempo nei luoghi sociali, nelle assemblee, pur molto impegnati nello studio altrimenti non avremmo potuto andare avanti. Il Sessantotto fu l’anno della nascita del nuovo, avevo come professore Alberoni che parlava di “ Stato nascente” ,il professor  Severino, insegnante di filosofia fu cacciato dalla Cattolica perché non era tomistico. Ricordo quando Capanna fu mandato via dall’Universita’ Cattolica, perché non coerente con i principi in vigore. All’epoca  c’erano regole rigide, per cui i capi del Movimento studentesco non erano compatibili  con l’ Università Cattolica stessa. Capanna ed altri si iscrissero alla Statale, Spada, iscritto al Magistero non presente come facoltà alla Statale, ando’ a Genova ….

 Quindi i facinorosi erano allontanati…

 Certo, per calmare le acque. Io non capivo quello che stava capitando, venni subito coinvolta a fare il lavoro di bassa manovalanza, come sempre per le donne, ciclostilare, volantinare… cercavo di partecipare e comprendere, si discuteva moltissimo tra compagne di corso e nelle assemblee. Riuscimmo ad avere in collegio cinque, sei giornali ogni giorno, tra questi anche Il Giorno, che nel 1968 aveva firme come Bocca, era uno strumento di analisi e discussione. Periodicamente partecipavamo alle manifestazioni e prendevamo botte. Finiti gli esami, tornai a casa a Merano e con la fine del 1968 e l’inizio del 1969, ci fu un cambiamento nel clima, perché dalla discussione ed elaborazione culturale, si cominciò ad andare nelle fabbriche. Nel frattempo ci fu il terremoto del Belice e a Milano furono ospitati molti terremotati, nella caserma della Polizia e noi li seguimmo e cercammo di aiutarli, scoprendo un mondo diversissimo e disagiato sotto molti aspetti. Ero molto sola in queste attività, poiché Michele, col quale nel frattempo mi ero fidanzata, non apprezzava e non capiva. L’unico con cui riesco a condividere degli interessi era Alberto, che, però molto velocemente ando’ verso l’estremismo ed entrò in Avanguardia Operaia. Io studiavo, lavoravo, ero molto pragmatica. Nel 1969 la situazione andò peggiorando, l’obiettivo  non era  più la ricerca culturale ma  la lotta di classe.

Secondo te questo passaggio avviene in modo naturale o poteva esserci qualcuno che avesse interesse affinché si imboccasse quella strada?

 Sono anni in cui, oltre a problemi sociali, ci furono problemi economici. Conoscevo le fabbriche di Sesto San Giovanni, città dove nacque Gino Strada che era un mio compagno e, come gli altri, mi rendevo conto dello sfruttamento della gente, c’erano ingiustizie sociali gravissime. Alcuni continuarono nell’ impegno verso gli altri, altri decisero che bisognava combattere il sistema. Erano filoni, c’erano gruppi molto forti nello scontro e poi c’erano i fascisti. Erano tanti, violenti, terribili. C’erano scontri quotidiani. In questo periodo un personaggio emblematico fu Pasolini, fu un riferimento per Alberto e Michele, che aiutai a laurearsi studiando questi argomenti. Pasolini era colto, come lo era Capanna. Mio cognato Natale, in un esame, dovendo fare una versione, non tradusse dal latino all’Italiano ma dal latino al greco, questo per dire dell’attenzione alla cultura che vi era.

Il livello culturale di chi scelse la lotta armata era inferiore?

 No,  le differenze vennero fuori in seguito, fino agli anni Settanta il livello culturale era alto un po’ ovunque.

Un luogo di incontro per noi, discussione ed elaborazione molto forte, era Casa Feltrinelli che stava a Brera.

Giangiacomo Feltrinelli abitava lì con Inge. Di fatto si stendevano documenti, si ciclostilavano comunicati. Noi, Alberto, io, l’avvocato Fuga,  ( difenderà poi i brigatisti Rossi) e tanti altri eravamo lì quando Giangiacomo mori’.

Tu cosa pensi della morte di Feltrinelli? Ho letto tante cose…

 Attenzione, oggi che sono a tre quarti di secolo lo dico, sicuramente Giangi non era mica scemo, non andava sui tralicci. Era un milanese, la cui cultura prevedeva di far fare un lavoro a chi lo sapeva fare, mica improvvisarsi dinamitardo… non era pensabile che potesse fare una cosa simile. Digos, Cia … giravano intorno a lui da tempo.

Certo gli Americani potevano avere un ruolo…

 Io ricordo quando Nixon venne a Milano. Infuriava una enorme polemica sul Vietnam, noi manifestammo e contestammo al grido : “ Nixon boia! “. La mia compagna di stanza in collegio, insieme a me si era salvata dalla carica della polizia, tornate in collegio ci  disse: “ lo non ho capito perché urlavamo  Xo Boian”  poverina non aveva colto la frase ingiuriosa …

Feltrinelli era in clandestinità, controllato da vari organismi, del resto eravamo tutti schedati, ci fotografavano nei cortei  davanti all’Universita. Io so di essere stata identificata fin dal 1967.

Tu mi hai detto che in quegli anni c’erano forti ingiustizie sociali, ma oggi è cambiata la situazione?

 No, oggi è pure peggio…io sono convinta però che  la mia generazione ha perso, noi abbiamo perso , non siamo riusciti a raggiungere ciò che volevamo. Oggi il livello culturale è più basso, le persone stanno male ma non si pongono il problema dell’altro. La guerra mi spaventa. Oggi è peggio di ieri perché ci sono i ghetti. Anche la Cattolica, dove dall’anno scorso non insegno più,  è diventata un ambiente frequentato da molti stranieri, ma ricchi. Cade il discorso dell’ ascensore sociale.

Il 1968 si può riassumere con la parola CULTURA, il 1969 con SEGMENTAZIONI,tipiche della sinistra. Il culmine è Piazza  Fontana. È il 12 dicembre 1969. Tutte noi studentesse  del primo anno, che avevamo aderito alle contestazioni, fummo buttate fuori dal collegio; in questa fase si costituirono dei gruppetti che vivevano insieme. Io invece mi sposai a settembre del 1969, avevamo preso casa insieme io e Michele. Studiavo e lavoravo, il 12 dicembre era un venerdì ed avevo lezione nel primo pomeriggio, Storia  Romana. Decisi che non ci sarei andata, perché dovevo sistemare la nuova casa e andai alla Rinascente, a piedi.Sentii uno strano rumore, ma a dicembre potevano essere botti, fuochi d’artifici. Mentre tornavo a casa, lungo Via Torino, sentivo un via vai di ambulanze: alla prima ambulanza pensai che forse nasceva un bambino, alla seconda e alla terza capii che non era così. A metà di via Torino venni bloccata e presi una via laterale, purtroppo verso Piazza San Sepolcro e qui venni nuovamente bloccata, con me avevo solo il tesserino universitario. Dissi che stavo andando all’Universita’ e mi fecero cambiare strada, dicendomi che forse l’Universita’ sarebbe stata chiusa. Potei solo tornare a casa e dalla radio venni a sapere che era scoppiata una caldaia. Io ero una deficiente dei Monti del Tirolo, ma pensai immediatamente ad una bomba.Verso le 16 e 30 chiesi di poter parlare telefonicamente con mia madre a Merano.  A quel tempo, per comunicare con la mia famiglia  a Merano, dovevo prenotare la telefonata. Riuscii a parlare con i miei alle 21 e 30, dopo cinque  ore. In città si cominciò a fare il nome di Pinelli e di altri anarchici, ma pur senza elementi, sentii che non potevano essere loro gli attentatori

E chi poteva essere?

 La DIGOS e i fascisti. Questo era poco ma sicuro. Bisognava destabilizzare. Quattro, cinque giorni dopo ci furono i funerali in Piazza Duomo e lì Capanna riuscì a scongiurare degli scontri .

Le persone “normali” a chi davano la responsabilità dell’attentato?

 Non si capiva nulla. La mia portinaia diceva che erano i comunisti, altri dicevano che erano i fascisti.Io non stavo in nessun gruppo politico, ma ero attenta a quello che capitava e cercavo di capire.

Noi a casa avevamo una radio molto potente, transoceanica, e sentii dalla Radio tedesca che era scoppiata una bomba, non una caldaia. Quello che avevo percepito era proprio vero.

Il movimento studentesco così come era stato fino ad allora, da Piazza Fontana si poté dire finito.

 Incominciano anche gli anni Settanta..  Qui vicino ad Arzello ci fu quel tragico conflitto a fuoco tra forze dell’ordine e brigatisti Rossi, 5 giugno 1975…

 

Ho un ricordo molto preciso, noi vivevamo a Milano ma venivamo a  Castelletto d’Erro regolarmente con Michele, perché nella cascina di Baret stava ancora mio suocero Luigi.   Alle  6 e 30 del mattino del 6 giugno ricevetti la telefonata di mio suocero  che mi disse : “ Non muovetevi eh, perché qui ci sono le Brigate Rosse.” Lui disse che c’erano elicotteri e uomini armati che cercavano i brigatisti in fuga, ma lui era convinto che fossero scappati giù nella fonda, risalendo il ritano fino sotto Casa di Baret e casa dei tuoi per poi scendere verso Ponti e la Vallebormida. Lui si era chiuso in casa ed aveva paura. Raccontava che queste persone che  avevano comprato La Spiotta e Bruno Pagliano era andato per tagliare l’erba e non lo avevano fatto avvicinare, si era arrabbiato e insospettito

Beh per i contadini castellettesi, se era tempo di tagliare l’erba, non c’era sequestrato che tenesse….

 Eh questo io lo dico sempre, che qui bisogna fare i conti con la cultura locale.  Loro si sono fottuti perché non hanno permesso a Pagliano di andargli a tagliare l’erba.

Loro pensavano, erroneamente, di stare in un posto così tranquillo che nessuno li notasse

 Ma figurati! Io ricordo che mio suocero usava il cannocchiale per controllare  meglio tutti quelli che stavano intorno.La sua ricostruzione della fuga è realistica.

Alcuni giornalisti ipotizzarono una fuga a Grognardo, dalla cascina Baghina

 Direi che la prima esigenza fosse di allontanarsi dalla Spiotta e poi salire in auto di qualcuno e andare chissà dove. Sicuramente il fuggitivo è stato caricato da un complice. All’epoca era anche facile ottenere dei passaggi in auto. Se uno era a piedi lo si caricava senza problemi.

Io avevo conosciuto Renato Curcio quando ero alle medie, avevo una compagna un po’ più grande di me che aveva un fratello che studiava alla facoltà di Sociologia a Trento. Insieme siamo andate in treno a Treno per partecipare ad una assemblea degli studenti. Curcio era lì , faceva da capo, era carismatico. Anche se poi tutti convennero che Margherita, Mara, Cagol era molto più colta e sveglia di lui e anche più impegnata.

Sai che sono state riaperte le indagini sulla sua morte alla Spiotta ? Sono sorti molti dubbi

 Qui si diceva che anche un postino si era insospettito per i movimenti alla Spiotta.

Posso dire che gli infiltrati in Italia ci sono stati dappertutto. Carlo Alberto Dalla Chiesa era il  generale dei  carabinieri che era impegnato in prima persona nella lotta al terrorismo , io conosco il figlio Nando, insegnante di sociologia e carabiniere anche lui.  Ancora oggi mi è rimasto timore della polizia e dei carabinieri.

Io ho avuto una vita complicata. Durante gli anni Novanta del Novecento chiesi di fare il passaporto e  consegnai tutta la documentazione agli uffici preposti in Piazza San Sepolcro. Passò del tempo, ma del passaporto nessuna traccia e non capivo il perché. Andai nella sede centrale e non ottenni nulla, poi mi venne in mente che durante la mia carriera di capo di Istituto, avevo avuto un questore come genitore e gli chiesi spiegazioni. Ero disperata, ma lì presi coscienza di essere stata una profuga, non ero cittadina italiana, avevo sposato un italiano ma, avendo divorziato in seguito da quest’uomo , avevo perso questo status. E mi tornò in mente quella definizione: pura razza bastarda….

 

Manuela Tomisich

PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA DOCENTE DI PSICOLOGIA IN UNIVERSITÀ CATTOLICA E IN UNIVERSITÀ BICOCCA MILANO

 

 

 

 

 

 

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