Don Vittorio

di Marina Levo

“Requiem aeternam dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace, amen”

Il corteo funebre sembrava sfidare il caldo afoso dei primi giorni di agosto del 1961, faticavano e sudavano gli uomini che, a spalla, reggevano la semplice bara di legno in cui erano composti i resti mortali del prevosto.

“ Don Vittorio, era entrato per la prima volta a Castelletto il 6 ottobre 1902” aveva detto don Luigi Garrone nella omelia in chiesa “ Quest’uomo ha dedicato la sua vita alla cura delle anime di questo paese per 50 anni, finché non fu deciso che io lo affiancassi”

Effettivamente 50 anni ( e che anni!) erano stati tantissimi. Gli anni di due guerre mondiali, che erano costati lacrime, sangue, povertà, anche su questo bricco sopra Acqui. Gli anni di maggiore popolamento di anime, famiglie numerose, bocche da sfamare con pochi metri di terra, sì, terra “buona” fertile per tante colture, ma ripida, faticosa, che veniva coltivata con certosina manualità fin nei luoghi più impervi, per trarne cibo, frutta, erba per le bestie, pietre per i muri a secco, i pozzi, le case. Si faceva a gara per ottenere, gratis, il taglio dell’erba sulla strada principale, da far seccare, da rastrellare e mettere in fazzoletti grandi come grembiuli e da portare sulla propria cascina. Tanta parsimonia, evinta da stili di vita parchissimi, aveva fatto sì che nascesse un detto goliardico sui Castellettesi: “ A Castlet i mangio un oev an set, e ognidein una ten en toc per l’indumain matein”, economia, economia, forzata, dignitosa, tutta piemontese . Questo detto nasceva dal l’abitudine di arricchire una semplice insalata con un uovo sodo, tagliato a tocchetti, che ne migliorava il sapore. Sempre un solo uovo, anche se i commensali erano sei o sette, perché le uova, anche se si avevano le galline, in primis si vendevano. Le uova, come il formaggio o la frutta, si portavano ad Acqui al mercato, a piedi in origine, con la corriera in tempi migliori, quando si saliva sul mezzo e ci si sedeva vicino al “ghermet “ che imprigionava galline o capponi, ceste che ospitavano i conigli, i capretti belanti in primavera,cestini di uova, frutta e verdura, tutte da portare a vendere in città. Don Vittorio ricordava come spesso aveva accompagnato i suoi parrocchiani nel viaggio, loro con i fardelli di prodotti da smerciare, lui col suo breviario, diretto in Duomo, per conferire con sua eccellenza il Vescovo. Una volta si era accompagnato con Carlein di Cicantone ed il piccolo e vispo Giovanni, il padre teneva sulle spalle una cesta di ciliegie e il bambinetto un cestino più piccolo: arrivando nella piana avevano approfittato per qualche chilometro del passaggio di un carro trainato dai buoi, poi avevano fatto tappa dalla Madonnalta per recuperare le forze. Erano gli anni Trenta del Novecento, ancora ignari della guerra che di lì a poco avrebbe travolto il mondo, anche quel piccolo remoto mondo. La città di Acqui aveva un nucleo di case molto più ristretto e arrivando dalla Madonnalta ci si trovava di fronte ad una campagna aperta e coltivata, solo negli anni del boom economico le strade e le case se la sarebbero ingoiata, mentre allora l’uomo, il bambino ed il prete erano figure nitide nel verde della campagna.

“Cosa dite Carlein di quella brutta vicenda?  Ci sono novità?” disse a bassa voce Don Dagna

“ Ssss.. reverendo stiamo attenti che non senta la masna “ rispose imbarazzato Carlein

Alludevano i due alla brutta storia che dalla valle di Cicantone, di bocca in bocca e nella cronaca giudiziaria, aveva destato orrore nella popolazione: da un pozzo davanti alla casa di Pietro ***  era emerso il corpicino di un neonato. Erano venuti su da Bistagno i gendarmi, erano partite delle indagini che portavano ad una povera ragazza, la sorella di Gian del Grivot, che un mascalzone aveva sedotto ed abbandonato, costretta al gesto estremo per sfuggire alla vergogna di una gravidanza irregolare. Non era stato difficile trovare un sospettato che, però, si era reso irreperibile.

“ Niente di nuovo, reverendo” disse Carlein, a cui la meningite aveva portato via a tre anni la figlia primogenita,  sembrava una bambola composta nella piccola bara bianca ( pensava il prete tra se e se), “ quella povera matota andrà dai parenti via di qui, non può più restare. Il processo finirà con nessun colpevole, ma la vergogna è troppa, tutti parlano”

“Il Signore abbia pietà di noi, Carlein”

“Eh sì reverendo… Giuane sta atent che t’anverse er cirese “ e fu interrotto dalla voglia di dare uno scappellotto al monello che giocava a saltare nelle pozzanghere, rischiando di far cadere il suo piccolo, prezioso carico.

Le orecchie di don Vittorio avevano ascoltato diverse versioni della vicenda, nel segreto del confessionale e percepito tanto dolore negli infelici protagonisti.

“ Pater Noster… vieni Giovanni, prega, prega con noi per le anime dei defunti.”

E Giovanni, con gli occhi stupefatti di un bambino che vede la città’ per la prima volta,  recitò due preghiere, alternandole a due ciliegie prese di nascosto dal cestino che gli era stato affidato.

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