Montechiaro 20 gennaio 1284. Uno studio del professor Carlo Prosperi in occasione del Convegno Conversazione all’ombra del castello agosto 2021

di Marina Levo

Montechiaro, 20 gennaio 1284. Conferma delle consuetudini della Comunità di Montechiaro fatta dai signori Odone, Ugheto e Alberto del Carretto. Dall’archivio di quella piazzaforte.

L’anno del Signore 1284, dodicesima indizione, 20 gennaio, in Carretto e precisamente in casa del signor Bonifacio de Guarino, presenti il signor Enrico templare marchese di Ponzone, il signor Timoteo giudice di Cremona ed il notaio di Montechiaro Pietro dalla Chiesa, testi richiesti ad istanza di Pagano da Serirollo [Seriole?] e Ruffino Rogna da Montechiaro, sindaci della Comunità, e dell’università [di tutti quanti gli abitanti] di Montechiaro, come consta da uno strumento redatto e composto per mano di me Bonifacio da Denice notaio infrascritto questo stesso anno, domenica  [1]9 gennaio etc. I signori marchesi del Carretto Odone, Ugheto e Alberto hanno confermato e promesso, per sé e per i loro uomini, ai detti sindaci Pagano e Ruffino, che stipulano e accettano a nome proprio, nonché a nome e vece di detta Comunità e dell’università di Montechiaro, di attendere ed osservare e di non trasgredire, di diritto o di fatto, tutte le buone usanze, le costumanze e le consuetudini che detta Comunità e università di Montechiaro ha o è parsa avere, e che sono poi le infrascritte.

Anzitutto il castello degli uomini di Montechiaro si estende secondo che va la via dal piano della villa attraverso l’avvallamento fino al pozzo, e dal pozzo fino alla casa del fuOdone Fava, e  […] secondo che va detta via dalla casa del fu Odone Fava fino a quella di Garello, e dalla casa di Garello fino alla casa dei Fava, e secondo che detta via va dalla casa dei Fava fino a quella di Schiapato, e dalla casa di Schiapato fino a quella dei Botazzi [Boccaccio?] in direzione del castello fino a tale castello. Tutti gli uomini che hanno terreni, possedimenti, case e qualcosa in detto territorio possono vendere, alienare, concedere, impegnare a qualunque persona vogliano senza che i signori di Montechiaro […] all’interno di queste coerenze possano opporsi.

Oltre a ciò, per consuetudine, hanno secondo che va la terra dal piano della villa (e tale essa è che per l’avvallamento va fino alla casa di Otone Fava, dal pozzo fino alla casa di Garello), e secondo che va detta via fino alla casa dei Fava, e dalla casa dei Fava fino a quella degli Schiapati, e dalla casa di Schiapato fino a quella dei Boccaccio: tutte queste cose sono di pertinenza del castello fino al castello stesso, e gli uomini di Montechiaro possono venderle, dare, alienare e legarle a pro dell’anima senza opposizione del signore.

Detti uomini hanno parimenti nel Guado [Vado] secondo che va il fossato da Barbisino fino al fiume Erro; e il Guado [Vado] di detti uomini si estende secondo che va il fiume Erro fino a Bozzolasco, e secondo che va il fossato di Bozzolasco fino al fossato di Ruagrosso, e secondo che va detto fossato di Ruagrosso fino al monte Arbiglia [sul bosco di Arbilia, positus in posse et iurisdictione Cartoxii, coerenti Mons Mazulinus, flumen Erri et fosatum Bozolaschi avevano pure diritto boschandi, pascuandi et lignamina incidendi sia il Comune sia la cattedrale di Acqui: cfr. l’accordo stipulato il 1o luglio 1425 a Cartosio, aput portam castriin R. Pavoni, Le carte medievali della Chiesa d’Acqui, Bordighera 1977, pp. 513-517], e secondo che va la via dell’Arbiglia fino alla moglia di Garino, e secondo che va il fossato di Castelletto fino a quello di Barbisino: Guado [Vado] che gli uomini suddetti potranno a loro volontà, senza opposizione del signore, vendere, dare e concedere, e saranno tenuti a pagare i tributi sulle terre lavorative al signore, cioè soltanto a colui che è oggi il signore, e non ad altra persona.

Dicono parimenti detti uomini di Montechiaro che essi hanno un bosco in detto Guado [Vado]: bosco che vogliono diventi una riserva e che nessuno in detto bosco debba tagliare fino ai prossimi tre anni, e da detti tre anni in avanti devono tagliarvi legname da casa [cioè da costruzione] e cerchi [da botti] e non altro legname; tale bosco confina col fossato di Castagneto, di Aseperello (?) e la via secondo [che va] fino alla colla dei rainati (?) dalla costa di tun[…] fino al monte Arbiglia, e la via soprana fino al castagneto dei Carasi [antroponimo o pali da vite?].

Parimenti l’intero bosco di Devia [da un atto del 1223 sappiamo che la Devia o Deva separava le terre di Montechiaro dall’Astoraria, territorio di Pareto: cfr. G. B. Moriondo, Monumenta Aquensia, II, coll. 412] è di detti uomini, e sulle terre lavorative di detto bosco di Devia i signori di Montechiaro hanno diritto [di tributo] e decima.

Parimenti se qualche persona di Montechiaro strappasse un bene ovvero un pegno a qualche uomo in detto bosco, la terza parte andrebbe al signore e due parti ai campari, e qualora prendesse qualche bestia in detta foresta ovvero bosco la terza parte andrebbe al signore e due parti ai campari.

Detti uomini hanno parimenti per consuetudine che qualsivoglia persona tenga bovini possa levare quattro sestari di frumento senza avvisarne il signore e senza versare tributo, e quelli che hanno la zappa possono levare due sestari di frumento senza avvisarne il signore e su detti due stari non devono pagare tributo.

Parimenti tutte le terre tenute al tributo sono tenute a dare soltanto l’undicesimo sestario di tutte le biade da falce messoria, ivi compresa la bracciata e la remunerazione dei mietitori (?).

Parimenti su tutti i legumi, che sottostanno al tributo, sono tenuti a dare per tributo solo il settimo sestario.

Parimenti sull’avena, sui fagioli, sulle lenticchie e sulla meliga e sulle cazis [ceci? vecce?] non ancora battute, non devono pagare tributo, a parte l’avena in territorio di Devia, la quale ha l’obbligo di versare il tributo del forense e non quello di Montechiaro.

Parimenti chi non ha gallina da portargli per tale gallina può dare al signore dodici denari.

E, del pari, una gallina per dodici denari soltanto se quando è in Montechiaro deve avviarsi alla volta della città di Asti.

Parimenti gli uomini di Melazzo e di Sassello e di Varazze, di Pareto, di Spigno non devono pagare il pedaggio in Montechiaro, e gli uomini di Montechiaro non devono pagarlo nelle località predette, né gabella sulle merci né diritto di “curatura” [curadia, pedaggio], e gli uomini di Melazzo devono collaborare ed aiutare a difendere Montechiaro per quanto concerne il pedaggio.

Parimenti, se qualche persona decedesse senza erede nelle cose mobili, può lasciarne due parti a qualunque persona voglia e la terza parte al signore; se decedesse senza testamento, tutto deve andare al signore.

Parimenti, se ci sono più fratelli e non sono divisi, nel caso qualcuno di essi morisse, i fratelli rimasti gli succederanno nei beni mobili e negli immobili.

Parimenti qualunque persona di Montechiaro può fare orto, canepale e prato nei suoi terreni, dove vorrà, senza dovere alcun tributo al signore.

Parimenti tutti gli uomini di Montechiaro devono fare al signore di Montechiaro la roida [corvée] con bovini nella braida per seminarla, eccettuati gli eredi di Rolando da Cosseria, e sono dispensati da tale roida gli uomini che possono esibire un documento che li esoneri, e tutti devono pascere i suoi bovini.

Parimenti, qualora qualche persona di Montechiaro acquistasse dalle massarie degli uomini di Montechiaro, il signore di Montechiaro non può confermare all’acquirente il manso in questione conformemente agli accordi [contrattuali], ma  questi è tenuto a pagare il fodro [in origine il termine fodrum indicava il foraggio dovuto al sovrano o al suo esercito in transito in un determinato territorio. Negli statuti, di norma, designa invece un’imposta, basata sull’estimo dei beni immobili (e talora anche mobili), che i cittadini erano tenuti a pagare al feudatario] e altre condizioni che tale manso e chi lo possiede erano soliti dare e pagare.

Parimenti, qualora qualche podere pervenisse al signore e lo stesso signore lo donasse a qualcuno, questi dovrebbe pagare e dare il fodro e quant’altro [le altre condizioni] di tale podere […].

Parimenti gli uomini di Stella non devono pagare pedaggio in Montechiaro e gli uomini di Montechiaro non devono darlo in Stella, per la ragione che si sono di nuovo consorziati.

Parimenti, se tra loro hanno qualche consuetudine, detti uomini non devono dare o pagare alcun tributo, a meno che non sia sentenziato dal giudice, e se accadesse che venisse un giudice per una questione del genere, devono pagarne le spese  gli uomini che ne hanno sollecitato il pronunciamento.

Parimenti, hanno la consuetudine che il castellano di Montechiaro può imporre il laudemio [da “laudare”, cioè approvare, era la prestazione che, ad ogni mutamento della persona del signore o del vassallo, era anticamente dovuta al signore] e confermare [in senso giuridico] nel luogo di Montechiaro.

Io Antonio Giudici de Judicibus, notaio e luogotenente di Spigno d’autorità imperiale in base alla commissione data e fatta dal signor Alberto del Carretto marchese di Savona ho fedelmente trascritto, così come l’ho trovato, questo documento dai protocolli ovvero dai rogiti del fu Bonifacio da Denice notaio, e l’ho redatto in pubblica forma senza nulla aggiungere o togliere se non forse qualche punto, qualche congiunzione o sillaba, per cui la sostanza della verità o il senso della varietà non muta, e mi sono sottoscritto, ponendo sopra altri il mio consueto segno tabellionale, e mi sono sottoscritto.

Alessandria, 18 settembre 1203. I milanesi si rendono garanti agli astigiani per l’osservanza dei patti e convenzioni fatti da parte degli alessandrini. Nessun comune potrà far concordia o società con conti e marchesi sine consensu alterius communis […] excepto quod homines et comune de Aste possint se concordare cum hominibus Mediolani si vellent, ita quod homines de Alexandria guerram haberent cum Ottone de Careto et domino Ugone de Careto pro facto Montisclari et offenderent supra terram [F. Gasparolo, Cartario alessandrino fino al 1300, vol. II, Alessandria 1930, p. 81].

Domenica 3 ottobre 1210, in castello Montisclari. Gli uomini di Montechiaro giurano fedeltà al podestà di Alessandria su ordine del marchese Delfino [del Bosco] e di sua moglie Giovanna (salve le doti a lei spettanti) [G. B. Moriondo, Monumenta Aquensia, I, coll. 160-161].

8 marzo 1228: il Comune di Milano dispone di ricostruire il castello di Montelliano [Montechiaro?] e di Morsasco e di restituire i prigionieri [F. Gasparolo, Cartario alessandrino fino al 1300, vol. II, Alessandria 1930, vol. III, p. 145].

31 marzo 1228: l’ambasciatore di Milano  manifesta la stima dei danni patiti dai castelli Monteliarij et Mursaschi secundum quod facta fuerit per quosdam magistros Mediolani; e la comunica agli interessati, cioè Genova, Tortona, Alessandria e Guglielmo del Bosco [ibidem, vol. III, p. 148].

5 aprile 1228: gli ambasciatori di Milano per far eseguire il loro arbitraggio del 9 novembre 1227, danno ordini ai Podestà e delegati di Genova, Alessandria e Tortona: Item dixit predictus dominus mudalbelgus et precepit dictis ianuensibus, ut dent et solvant libras XV que debent ad solvendum pro estimacione monteliarij facta et faciant quod gulielmus de Boscho det libras XX pro estimacione murixaschi quod debet dari magistris [ibidem, vol. IIi, p. 155].

24 aprile 1381. Patti e convenzioni degli uomini di Montechiaro, distretto astigiano, col Duca Giovan Galeazzo; e relativa conferma [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I – Reg. A, f. 144, Libro Paci e Feudi].

1o maggio 1381. Il Duca Galeazzo conferma i capitoli stipulati il 24 aprile con quei di Montechiaro. Conferma parimenti l’immunità per detto paese e per Cisano, allungando, allungando il tempo del privilegio [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I  – Reg. A, alias vv, f. 148]. Al fol. 149 vi è la lettera ducale alle Autorità di Asti, perché Asti confermi e osservi essa pure i capitoli: con la stessa data (p. 54, doc. n. DXIV).

22 settembre 1432. Bartolomeo Carretto investito dal Duca dei luoghi di Albaretto, Bosio, Bossolasco, Cagna, parte delle Carcare, Lodisio, Monastero, Mombarcaro, Monesiglio, Montechiaro, Niella, S. Benedetto, Serravalle, Terzolo, diocesi di Acqui e Alba [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I (Filza I, n. 28)].

21 dicembre 1530. Nicolao Scarampi e Ludovico fratelli, conti di Canelli, e feudatarii di Vincio, Montechiaro, Monterottolo e Clario ricevono dal Duca Francesco II Sforza una proroga a prestare il giuramento di fedeltà, e riportare la rinnovazione delle loro investiture feudali [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I, pp. 39-40, doc. 390 – Reg. n. 9, f. 200 t.].

10 giugno 1451. Bartolomeo Carretto riceve licenza dal Duca Francesco Sforza di vendere il castello di Montechiaro a Lodovico Scarampi [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I,  p. 82, doc. DCCLXXVII-DCCLXXVIII – Reg. V, f. 320 t.].

24 agosto 1454. Gio. Bartolomeo Carretto investito dal Duca dei luoghi di Albaretto, Bossolasco, Frisolio, Niella, Monesilio, Montechiaro, S. Benedetto, Serravalle [F. Gasparolo, Carte Alessandrine dell’Archivio di Stato di Milano edite a spese del Municipio di Alessandria, Alessandria 1903, vol. I, p. 3, docc. nn. III-IV – Reg. S, f. 60 t.].

Montechiaro.Luogo di anime 800. circa posto sovra un alto colle alpestre, ridotto a mani Regie per la morte del Sig. Marchese Antonio Maria Scarampi Crivelli.

Non vi è altra manifattura che quattro telari da tela di canepa.

Il Conseglio è stato ridotto a sette soggetti dal Sig. Conte Castelli per tal effetto da S. M. delegato, avendoli lasciati alcuni stabilimenti, in qual occasione ha pure ordinato doversi annualmente presentare all’Uff.o i conti esattoriali, e le imposte per la loro admissione, come si pratica tutto che non paghi tributo.

L’Archivio si ritiene nella Chiesa, e le scritture sono molto in confuso, e senza inventaro; Nell’occasione dell’imposta si è ordinato riporsi nella casa del Comune, che è in stato mediocre, e formarsi l’invent.ro

Il Cadastro fu formato nell’anno 1718, e si trova ancora in buon essere.

Si fa annualmente l’imposto dal Conseglio ordinario con intervento del sig. Giudice sul reale solamente senza concorso del personale, eccetto nei carichi straordinarj di contribuzione, i quali si pagano un terzo dal Feudatario, l’altro terzo a Reg.ro e l’altro a capi di casa, siccome si pratica in tutti i luoghi d’ultimo acquisto.

S’impone annualmente per i stipendiati tra tutti £ 389., e per le annualità dei censi o debiti £ 284. oltre £ 200. circa per gli urgenti, ed altre contingenze.

I redditi comunitativi che si mettono in deduzione del detto importo, ascendono a £ 110. provenienti da annue prestazioni di molti particolari particolarmente obbligati nel sottoscritto censo dei Sig.ri Merlani, e da daciti di panateria, forni, macello, osteria, e simili, che si lasciano annualmente in affitto al pubblico incanto.

Il registro universale è di soldi 621. da’ quali dedotti soldi 43. d’imune Ecclesiastico, restano di colletabile 578., e cadun soldo può calcolarsi a £ 250. di valore.

L’esazione della Taglia si delibera al pubblico incanto.

Il Territorio è tutto montuoso, ed il raccolto fatta una comune può essere cioè formento  ed altre granaglie e marsaschi sacchi 497. castagne sacchi 115. Noci sacchi 6. Galletta Rubbi 180. fieno carra 28, Vino Brente 450.

Confina con Cartosio, Malvicino, Spigno, Ponti e Castelletto d’Erro.

Le suddette lire per i stipendiati sono

Ai Sindaci tra tutti e due       £ 15 ​​Censi, e debiti

Al Segretario                            « 14​​Al Sig.rFeudatario                          £ 75

Al Pretore in Acqui                  « 15​​Al Sig.r Conte Guerrieri                 « 75

Al medico                                  « 75​​Al Sig. Arciprete di Denice            « 50

Al serviente di giustizia           « 20​​A’ Sig.ri  Serventi                             « 70

Per suonar le campane           « 10   ​​Ai med.mi come cessionari

Olio della Lampada                  « 48​​         dei Sig.riMerlani                     « 63: 9

Avvocato in Acqui                    « 21​​Ai S.ri Gaini come s.a                        « 15: 16: 8

Al rettor di Scuola                    « 130 ​​                                                           _________

Cereo Pasquale                         « 10​​                                                           £ 289: 5:  8

                                                  ______

                                                £  388                                     ​Nell’imposta si spiegano i titoli

Bovine 200 : Mulatine 1. Cavaline 2. Porchine 40. Asinine 20. Capre e pecore 150”.

[Ex Intendente Conte Traffano di Montemarzo, Descrizione della Provincia di Acqui (15 aprile 1753), ms presso la Biblioteca Reale di Torino].

Si uò inoltre consultare sul web la scheda su Montechiaro d’Acqui stilata da Luca Giana per il Centro Interuniversitario di Storia Territoriale “Goffredo Casalis”.

      1 – La parrocchiale di San Giorgio:

                                                                                       l’attuale parrocchiale è sorta sul versante collinare dove è concentrato il centro storico di Montechiaro Alto, sfruttando il pendio della collina. È stata edificata sul preesistente oratorio di Santa Caterina, negli ultimi decenni del Cinquecento. Nella parte sottostante vi è l’antico oratorio di Sant’Antonio (dimensioni: altezza m. 15; lunghezza m. 10,30), oggi completamente rifatto e adibito a sala-museo, in cui immette una porta di legno chiodata. Nel 1178, l’anno in cui per la prima volta si fa menzione della chiesa di San Giorgio, l’attuale parrocchiale non esisteva ancora o, meglio, era una semplice cappella ai margini del paese (si ritiene fosse la chiesa cimiteriale posta nell’area in cui più tardi sarebbe stato traslato l’oratorio di Santa Caterina), alle dipendenze dei monaci di Spigno (alla stessa stregua di San Michele di Malvicino).

  Nel 1577, in occasione della visita apostolica di mons. Ragazzoni, la parrocchiale di San Giorgio è ancora parzialmente priva di “soffitta” e di “suolo”, le mura sono da imbiancare, manca il vaso dell’acqua benedetta, tanto che il Santissimo Sacramento si conserva ancora nell’oratorio di Santa Caterina. D’altra parte, la cappella stessa dei disciplinanti, da “tanto tempo incominciata”, è ancora da ultimare (cfr. Archivio Vescovile di Acqui, Visite pastorali di mons. Ragazzoni).

  Le dimensioni attuali della chiesa sono le seguenti: larghezza m 13,10; lunghezza m 16,00; altezza facciata m 12; altezza retro m 20.

  La facciata, intonacata e tinteggiata in rosa antico, presenta un oculo al  di sopra del portale, cinque finestre, più una porta tamponata. Alla base ha una zoccolatura di lastre di pietra locale. Il tetto è a capanna, a quattro falde, in tegole marsigliesi e ha subito vari restauri (1946-1950; 1993-1995: facciata; 2000-2001: fiancata prospiciente piazza Battisti, campanile e oratorio di Sant’Antonio).

   Notevole è il portale rinascimentale (dimensioni: altezza m 4,10; larghezza m 2,30), in arenaria locale, con elegante bassorilievo raffigurante San Giorgio nell’atto di trafiggere il drago, affiancato da motivi stilizzati (vasi di fiori) e data 1595. Fiori stilizzati (rose araldiche) sono anche negli stipiti, nei piedritti e nell’architrave. La porta è in legno di castagno a pannelli intagliati, con serratura originale (con rosa celtica), sei-settecentesca (dimensioni: altezza m 2,50; larghezza m 1,70).

  Il rivestimento murario ora sotto intonaco è in pietra arenaria locale di bella e uniforme fattura. Emergono in particolare le testate angolari e parte di archi ciechi. Alcuni piccoli assaggi effettuati sulla superficie, durante gli ultimi lavori, hanno dimostrato che tali caratteristiche connotano l’intera facciata.

  La parte absidale è rettangolare, a due piani, e denuncia vari interventi, eseguiti a più riprese. E’ in parte intonacata, in parte in pietra a vista, con tamponamenti in mattone. Vi si notano varie catene, buchi pontieri, uno sporto in corrispondenza della nicchia interna, una finestra tamponata in alto, una in basso, con cornice di mattoni, strombata, due finestrotti tamponati sull’alto, una finestrella in legno, malandata, due feritoie che fanno ipotizzare la presenza del vecchio campanile. Nell’area absidale, dove la pietra è quasi interamente scoperta e priva di intonaco, si delinea con nettezza l’originaria struttura dell’edificio cultuale, sul quale è stato poi alzato l’attuale corpo di fabbrica.

  La facciata laterale è stata recentemente restaurata e riportata alla pietra a vista originaria.

  Il campanile cinque-seicentesco (dimensioni: altezza m 16; larghezza m 3,60; lunghezza m 4,20) è stato rialzato di un piano nel secolo scorso e presenta lesene in cemento (come pure la cupolina sommitale) e il resto in pietra. La cupolina è rivestita di rame. Vi è una finestra con vetrata sul lato destro, più un’altra tamponata, con grata residua.

  L’interno, a cui si accede attraverso una bussola, è a tre navate, con due colonne tuscaniche in pietra con entasi, un pilastro (a sostegno di tre archi longitudinali) e due paraste per lato. Colonne tuscaniche analoghe, con o senza entasi, si ritrovano pure nella parrocchiale di San Pietro di Pareto e in quelle di Turpino e Malvicino. A Pareto, su un portale laterale con decorazioni geometriche e stilizzate alla tregua di quelle del portale di Montechiaro, si legge anche il nome del lapicida: Giovanni Guasco.

  Vi sono tre catene per navata – quattro in quella centrale – più due longitudinali in zona presbiterale.

  La volta centrale è affrescata, ma gli affreschi, che potrebbero essere settecenteschi, riprendono con tutta probabilità modelli  arcaici, forse preesistenti, addirittura goticheggianti, come nei tondi con gli Evangelisti. Sono tuttavia in pessimo stato conservativo. Oltre ai quattro Evangelisti, questi affreschi raffigurano simboli eucaristici (calici e ostia), mariani(monogramma e stelle) o allusivi alle virtù cardinali (cuore ardente, croce, ancora), più motivi ornamentali, floreali, vegetali. Nella volta presbiterale sono dipinti due angeli con ostensorio, uva, frumento, vasi di fiori e teste di putti.

  Negli archivolti, sei lampadari di ferro battuto.

  Nell’arco di trionfo è rappresentata l’Annuciazione con la scritta Angelus Domini nuntiavit Mariae e, al centro, un Presepe, opera di Carlo Bonichi, nipote di Eso Peluzzi, firmato e datato 1965.

  Il presbiterio è rialzato di due scalini, con balaustre forse tardocinquecentesche.

  Il pavimento è in mattonelle colorate, esagonali, di fine Ottocento; di marmittone nel presbiterio.

  All’ingresso della chiesa vi è un’Acquasantiera tardocinquecentesca, con piedistallo scolpito ad angioletti, in pietra.

  Il Battistero, in pietra arenaria, è anch’esso tardocinquecentesco, con addobbi più recenti, entro piccola nicchia.

  Del pulpito tardo-rinascimentale (manieristico) parleremo a parte.

  Sulla parete di fondo del presbiterio, a sinistra, vi è il moderno Altare delle Sante Spine,  che custodisce due spine della corona di Cristo che la tradizione vuole portate da un crociato come reliquia dalla Terrasanta. Sul fondo, affresco di Bonichi (Cristo Crocifisso).

  Sulla parete di fondo del presbiterio, a destra, abbiamo invece l’Altare della Madonna delle Grazie;  in una nicchia  vi è una bella statua della Madonna, lignea, settecentesca, indorata, con fini decorazioni sull’abito (dimensioni: altezza m 1,50; larghezza m 0,75), forse di scuola del Maragliano. E’ circondata da affreschi (angeli) di Claudio Bonichi (1966).

  Nella navata destra si trova l’Altare di Sant’Antonio(dimensioni: altezza m 5; larghezza m  2,40), con elegante edicola baroccheggiante, di stucchi colorati, formata da due colonne a capitelli compositi su cui poggia un epistilio spezzato, con due angioletti in alto e due laterali poggianti su volute arricciate. Al centro, una testina di putto. Nella nicchia, statua in cartone gessato di Sant’Antonio da Padova.

  Nella navata sinistra vi è l’Altare di San Rocco (dimensioni della mensa: altezza m 1,65; larghezza m 1,75). Bel tabernacolo, con iscrizione Hic Corpus Christi adora, di classica fattura, con fini decorazioni. Vi è una tela malamente ritoccata e in cattivo stato di conservazione, forse tardo-seicentesca con il Transito di San Giuseppe e le anime purganti.

  L’Altare maggiore, in marmo, è di fattura moderna, senza particolari pregi artistici. Dietro l’altare maggiore, tela con San Giorgio, forse tardosettecentesca o proto-ottocentesca. Interessante per la riproduzione di Montechiaro (dimensioni: altezza m 1,30; larghezza m 1,20).

  Al pilastro destro, delicata tela secentesca (dimensioni: altezza m 1,50; larghezza m 0,90) entro medaglione decorato a stucco: raffigura San Luigi Gonzaga.

  Confessionale di fine Settecento, ligneo, con pannello intagliato nello sportello e fastigio (dimensioni: altezza m 2,10; larghezza m 2,20; profondità m 0,70).

  Vi sono infine vari banchi e bancali.  In fondo alla chiesa  si trova una lapide riutilizzata, con stemma liso, dei Sanfront.

  Una porta settecentesca (dimensioni: altezza m 1,95; larghezza m 0,85) immette nella sacrestia, un raccolto ambiente a cupola, con decorazioni ottocentesche e al centro il triangolo occhiuto simbolo di Dio Padre. In un angolo, bel lavabo in pietra arenaria. Vi è un bel Crocifisso (di gesso?) (dimensioni; altezza m. 1,50; larghezza m.1,20).

   Notevoli sono infine il credenzone  e l’armadio di cui parleremo più diffusamente a parte.

 

 

2 – Il pulpito ligneo:

                                                in un inventario del 17 settembre 1720 si parla, tra l’altro, del “pulpito fatto di tavole di noce con varii ritratti attorno fatti a intaglio con suo baldachino simile sop[r]a coll’imp[ron]ta dello Spirito Santo in forma di Colomba” (da un registro conservato nell’Archivio Vescovile di Acqui). Si tratta sicuramente del nostro pulpito, anche perché viene specificato che esso si ritrova “affisso al pilastro che resta dalla parte dell’Evangelo”: cioè in cornu Evangelii, dov’è tuttora. Le dimensioni del pulpito sono le seguenti: altezza m 1,90; larghezza m 1,50; profondità m 0,90. Esso è appunto sovrastato a mo’ di sopraccielo da un baldacchino, su cui è effigiata o, meglio, incisa la colomba dello Spirito Santo entro raggiera; i cinque pannelli perimetrali del pulpito sono istoriati con le immagini di Sant’Antonio da Padova contraddistinto dai suoi abituali riscontri (il giglio e il Bambino), di San Giorgio a cavallo che trafigge il drago con la lancia, ma anche con motivi floreali, festoni vegetali, frutti (mele, siliqua di carrube, uva),  un ostensorio con due angeli adoranti … Motivi floreali e vegetali ornano le cornici che separano i pannelli, mentre nella cornice superiore, lievemente aggettante, a mo’ di cimasa, a tali motivi decorativi si alternano testine frontali di putti : particolare, questo, che rimanda ad analoghi soggetti di area ligure.

  Sulla base poligonale del pulpito si innesta la parte inferiore, a piramide rovesciata, che, sebbene riprenda, soprattutto nelle cornici, taluni elementi decorativi della parte superiore, sembra opera di altra mano. Le sgorbiature e gli sgusci sembrano infatti più energici e decisi, più essenziali. A prima vista, anche tenendo conto delle commessure non proprio perfette (che potrebbero però dipendere dal degrado e dall’usura temporale cui il pulpito è inevitabilmente andato soggetto), si potrebbe azzardare che la costruzione e la messa in opera della parte inferiore del manufatto siano più tarde del resto. Un eventuale smontaggio del pulpito dovrebbe dare, a questo riguardo, risposte più sicure.

L’opera, che qualcuno giudica barocca, potrebbe invece essere tardo-rinascimentale o, per meglio dire, manierista, considerando che da noi voghe e mode stilistiche pervengono sempre con notevole ritardo, dando luogo, talora, a forme piuttosto ibride, che coniugano in maniera sorprendente vecchio e nuovo, arcaismi espressivi e arditezze innovative, come è proprio, del resto, di un ambiente provinciale dove la lezione dei maestri viene spesso declinata in termini dialettali, non prive di ingenuità. C’è in effetti qualcosa di naïf  nella goffaggine del cavaliere che monta una cavalcatura tutto sommato poco armoniosa e sgraziata, nonostante l’impennata in cui si cimenta. E lo stesso Sant’Antonio appare sproporzionato di fronte alle dimensioni esagerate del Bambino e del giglio. Nell’insieme, però, il pulpito dà un’impressione di gradevolezza, di artigianale decoro. E rimanda, per analogia, al pulpito, anch’esso tardo-rinascimentale, della parrocchiale di Ponti o anticipa soluzioni affini, se pur di più matura impronta barocca, quali è dato vedere nelle parrocchiali di Reboaro e di Montaldo di Spigno.

  3 – Il credenzone:

                                   è questo indubbiamente il pezzo di maggior pregio che si conservi nella sagrestia della parrocchiale. Anch’esso compare nell’inventario già menzionato del 1720: “ […] un credenzone grosso di tavole di noce lavorato con sue cornici, e intaglio, quale ha in cima cinque credenzini, tre de’ quali hanno sue serrature, e chiavi, e gli altri due aperti senza chiave; più sotto detti credenzini vi si ritrovano cinque tiretti con sue fibbie di ferro senza serrature, e chiavi, più nella parte inferiore si è ritrovato aver d[ett]o credenzone nella parte di mezzo altri quattro tiretti ampii anche con sue fibbie, cioè due per caduna e una sol serratura, e chiave; più aver negli angoli credenzini con suo solaro in mezzo parim[ent]e con sue serrature, e chiavi […]”.

  Si tratta, in effetti, di un grosso armadio a due corpi, intarsiato a massello, si direbbe di fattura piemontese-lombarda, sicuramente del primo Settecento, come del resto conferma l’iscrizione che vi si legge nella parte centrale: An[n]ven[te] D. Arch[i]p[resbitero] / Gab[riele] Gal[esio] die 20 Xbris  (e sopra: 1713). Il credenzone fu dunque commissionato da don Gabriele Gallesio, che fu arciprete di Montechiaro fino, appunto, al 1720, quando egli morì e gli subentrò don Giacomo Felice Serventi (di qui l’esigenza di un nuovo inventario dei mobili).

  Il mobile, che si prolunga in un confessionale ad angolo da uomo (ad esso addossato), occupa quasi l’intera parete della sagrestia ed è ravvivato dagli intarsi giallini dei cassetti profilati in rilievo e sagomati, dall’avvitarsi delle colonnine tortili, dal susseguirsi di cornici e decorazioni a motivi geometrici o floreali, nonché da una pronunciata cimasa che regge la cornice di coronamento. Al centro spicca, intarsiato, un ostensorio giallo, racchiuso entro colonne tortili più corte di quelle laterali (in quanto posano su alti basamenti rettangolari). A separare la parte inferiore da quella superiore sta il ripiano.

  Il credenzone, che era adibito alla conservazione dei paramenti e di taluni arredi liturgici, presenta due ante laterali, con quattro cassetti; in alto cinque cassetti, quattro sportelli laterali e uno centrale (dimensioni: profondità della parte superiore m 0,50; profondità della parte inferiore m 1,00; lunghezza m 3 – più confessionale; altezza m. 2,10 –  dimensioni confessionale: altezza m. 2,30; larghezza m. 1,50).

  4 – L’armadio:

                                     è un mobile rococò, di fine Settecento, lavorato a intaglio, a due piani e quattro antine. Le sue dimensioni sono le seguenti: altezza m 1,35; lunghezza m 2,25; larghezza m 0,80. A separare i due piani, una cornice rettilinea che s’incurva sui fianchi seguendo la sagomatura del mobile, mentre ancor più sagomata è la cornice superiore dell’armadio, che nella sua aggraziata tournure viene assecondata dalla conformazione delle ante superiori. Le ante sono decorate da virgulti stilizzati che si piegano, sinuosi e dolcemente ondulati, a racchiudere e a incorniciare, entro simmetriche specchiature polilobate – talora contornate da reticoli  esornativi -, dei motivi floreali (nella parte inferiore) o a raggiera (nella parte superiore). I due ripiani dell’armadio non sono (più?) separati da alcuna intercapedine. Lo stile del mobile fa pensare ad una produzione d’area ligure.

  5- Bibliografia (sulla chiesa):

                                                                      –  G. Rebora, Monumenti religiosi e militari, in Aa. Vv., Comunità montana Alta Valle Orba,Valle Erro, Valle Bormida di Spigno: tre valli turisticheGenova 1989, p. 94.

                                                        – C. Prosperi, Dal Rinascimento al Barocco: vagando e divagando su egiù per l’Alto Monferrato e dintorni, in Alto Monferrato tra Piemonte e Liguria, tra pianura e appennino. Storia arte tradizioni, a cura di G. Gallareto, Torino 1998, pp. 188-189.

                                                        – CD, Censimento dei beni artistici e architettonici (anni 2000-2002), a cura della Comunità Montana Alta Valle Orba, Erro e Bormida di Spigno, Ponzone (AL), disco 1.

                                                       – Archivio Vescovile di Acqui, faldoni: Visite apostoliche e pastorali e Montechiaro: la parrocchiale (l’inventario dell’archivio è su Internet).

A Montechiaro d’Acqui una tradizione locale vuole che alcune di esse siano state portate in paese da un crociato di Cortemilia reduce dalla Terra Santa. Una di queste, su pressione del vescovo di Acqui, per dirimere delle contese di campanile, sarebbe poi stata ceduta al suo paese d’origine (1572). Ebbene, il 30 marzo 1666 nella chiesa parrocchiale di Montechiaro don Giovanni Torres “dottor de leggi, e Avocato fiscale per S[ua] M[aes]tà Cat[oli]ca della Camera di Milano nel finale et delegato sopra le diferenze vertenti fra la Co[mun]ità di q[ues]to loco, et Malvicino, avendo inteso che qua si trovano due spine della Corona del N[ost]ro Signore tenute in un reliquiario di lotone, ha voluto per maggior veneratione donar un Reliquiario d’argento dove reponerli dentro, qual si trova fabricato a modo di sole con quatordeci raggi attorno e una Crocetta sopra nel mezzo e col suo piede sotto d’argento, qual ha offerto et donato alla Cappella di d[ett]e S[an]te Spine consignandolo nelle mani del M[ol]to Ill[ustr]e et M[olto] R[everendo] S[igno]r Carlo Guarero Retore di d[ett]a Cappella et anco substituito del M[olto] R[everendo] S[igno]r Carlo Ger[onim]o Doglioti Arciprete di q[ues]to loco per ritrovarsi in letto indisposto, qual S[igno]r Carlo quella havendo accettata, et rese quelle gratie si convengono a d[ett]o S[igno]r de Torres li hà reposto dentro le sud[ett]e S[an]te Spine e quelle ligate et serrate sendovi il cristallo d’ambe le parti e poi reposte nel tabernacolo dove si tiene il Santis[si]mo sino a tanto sia acomodata la finestra, et luogo designato nella sua Cappella, dichiarando d[ett]o Sig[no]re de Torres che non intende siano mai in perpetuo levate ne remesse d[ette S[an]te Spine dal sud[ett]o Reliquiario da lui offerto” (ASAl, Notai d’Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3218). Nell’inventario delle cose consegnate al nuovo arciprete don Carlo Guerrero dai consoli di Montechiaro Antonio Francesco Serventi e Michele Satragno il 28 settembre 1670 compare infatti, tra l’altro, “il Reliquiario d’Argento fatto a forma di sole, con suo piede, ove sono ristrette le S[antissi]me Spine” (ASAl, Notai d’Acqui: Giovanni Battista Serventi, faldone 67).

“L’anno del Sig[no]re 1674 li 7 Maggio giorno della festa et solennità della S[an]ta Spina in questo loco di Montechiaro”, “ritrovandosi Cattarina figlia di m[esse]r Gio. Paulo Posavino di Bruno da spiriti cattivi detenta fu condotta avanti la sud[ett]a S[an]ta Spina, qual era reposta nel tabernacolo ateso che non s’era ancor fornita la fenestra ò sij custodia della sua Cappella et arrivata alla scalinata in genochioni acompagnata dalla s[igno]ra Cattarina moglie del s[igno]r Gio. Bartt[olome]o Servento sua Ava paterna, et havendo il M[ol]to Ill[ustr]e et M[olto] R[everendo] S[igno]r d[on]Carlo Guarreiro Arciprete di d[ett]o loco aperto d[ett]o tabernacolo sub[it]o d[ett]a figlia misse il mostacchio in terra, e non poteva alzarsi à veder d[ett]a s[an]ta spina, e stette così per mezzo quarto d’hora c[irc]a e poi come così ha referto la med[esim]a e suo padre non haver mai piu havuto alcun fastidio d’essi, v’erano presenti molte persone cioè s[igno]r Giulio Cesare Servento, s[igno]r Michel servento, s[igno]r Gio[vanni] Batt[ist]a Servento nodari di q[ues]to loco tutti et altri tanti ecc. In fede ho fatto la p[rese]nte sendovi io statto p[rese]nte e veduto ecc. Gio. Franc[esc]o Suardo nod[ar]o et V[ice] Puod[est]a di Montechiaro” (ASAl, Notai d’Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3220).

                                                                                                                                                                                                     Carlo Prosperi

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