Per il convegno di Montechiaro sull’emigrazione
L’uomo è nomade per natura, per cui, vuoi per necessità, vuoi per spirito d’avventura e magari «per seguir virtute e canoscenza» alla stregua dell’Ulisse dantesco, per innata curiosità o per desiderio di esplorare il mondo, si è sempre allontanato, più o meno a lungo, più o meno definitivamente, dal luogo dove è nato e cresciuto. Al legame viscerale che lo lega alla patria (o matria che sia) si accompagna e si contrappone la brama di vedere e conoscere l’altrove, l’ignoto, il nuovo. Non sum – scrive Seneca – uni angulo natus, patria mea totus hic mundus est. Di qui il bisogno irrefrenabile di sconfinare o di ampliare vieppiù il proprio raggio d’azione. A volte anche per ragioni pratiche, di sicurezza, di alimentazione, di comodità. Altre volte è la necessità a indurre o costringere individui, famiglie o intere tribù a lasciare i luoghi d’origine per cercare altrove scampo dai nemici, dalla siccità, dalla furia degli elementi. Ma all’origine degli spostamenti possono esservi mille altre motivazioni, legate ora alla sussistenza (la caccia, la pesca, il pascolo, il commercio e più in generale il lavoro) ora all’irrequietezza che è propria dell’uomo, il quale – per dirla con un motto cinese – vuole anzitutto vivere, quindi vivere bene e infine vivere meglio. Talora a scapito degli altri: di qui le invasioni, le aggressioni, le guerre. Né mancano motivazioni più nobili, di carattere religioso (si pensi ai pellegrinaggi), umanitario (medici, istruttori, missionari, ecc.), scientifico (esploratori, geografi, cartografi, etnografi, botanici, ecc.), formativo (era questo lo scopo del grand tour proprio dei ricchi aristocratici europei a cominciare dal XVIII secolo: un fenomeno da cui trasse più tardi origine il turismo come cultura di massa) e persino performativo (con le imprese dei navigatori solitari, dei trasvolatori, degli scalatori, ecc.). E non dimentichiamo gli esuli, i senza patria, gli erranti, i nomadi odierni… Quelle che noi chiamiamo “invasioni barbariche” da molti storici sono dette “migrazioni di popoli”. Di migrazioni è piena la Bibbia, a cominciare da quella di Abramo, che da Ur dei Caldei, sul Golfo Persico, lo portò in Palestina.
Ciò detto, c’è migrazione e migrazione. Quella odierna, in molti casi clandestina e irregolare, è un fenomeno complesso e, a dir poco, caotico, perché globale. E la politica stenta a prenderne atto e a prenderne le misure, che richiederebbero interventi internazionali, in grado di attutirne, se non di eliminarne, le cause. Invece ci si muove in ordine sparso, senza alcun coordinamento. Con misure tampone, a volte inefficaci, a volte improvvide. Si predica solidarietà, ma gli egoismi nazionali prevalgono. Trionfa l’ipocrisia. Altra cosa l’emigrazione che interessò l’Italia (e non solo) dalla metà dell’Ottocento alla metà del secolo successivo: una emigrazione in parte spontanea, in parte sollecitata. Si cercava lavoro, ma i lavoratori erano anche richiesti: in ogni caso l’emigrazione era in genere regolata, controllabile e controllata. Fu una valvola di sfogo che, sia pure tra mille difficoltà e molte contraddizioni, giovò sia all’Italia sia ai Paesi d’arrivo. A differenza dell’emigrazione odierna dei “cervelli” e dei laureati, che giova solo ai Paesi d’arrivo.
Ma veniamo a Montechiaro. Siamo nel XVII secolo. Su “Iter”, anno III, n. 3 (ottobre 2007), pp. 25-39, abbiamo pubblicato Viaggi e vagabondaggi, un testo che documenta in modo esemplare la mobilità propria dell’epoca. Pellegrini, vagabondi, mendicanti, soldati e furfanti di vario tipo e di varia provenienza andavano e venivano per ogni dove. Chi partiva per arruolarsi e andare a combattere ora nelle Fiandre ora contro i Turchi provvedeva a fare testamento, e così pure i pellegrini che sapevano di andare incontro a vari pericoli. Spesso era difficile distinguere tra pellegrini veri e questuanti, tra soldati e comuni delinquenti. Tutti si muovevano di Stato in Stato, da una città all’altra, e dalle città si spandevano spesso e volentieri per il contado, meno presidiato. Capitava dunque che anche un piccolo paese come Montechiaro fosse interessato dal fenomeno. Al testo già edito aggiungiamo infine alcuni regesti di atti notarili che dimostrano come anche Montechiaro conobbe due diversi tipi di immigrazione: quella di calzolai e di fabri murarii provenienti per lo più dai laghi (di Lugano o dal Maggiore) e quella, stagionale, di pastori provenienti coi loro greggi ovino-caprini da Valdieri.
Viaggi e vagabondaggi
Il 26 agosto 1612 don Costanzo Valdivia, curato (o più precisamente vice-parroco) di Montechiaro, invia al vicario generale della diocesi di Acqui “gli esami fatti a quelli quivi [vale a dire a Montechiaro] detenuti pregioni”; dalla “varietà” delle “bugie che dicono l’un contro l’altro et dal essame fatto a Gio[vanni] Batt[ist]a, figlio di Luca Servento, potrà così farsi un’idea di “qual et quanta sij la loro furberia et furfanteria”. Gli esami sono stati ricevuti da pubblico notaio [Giovanni Battista Cavallero, “nodaro apostolicho di Montechiaro”] e quindi sottoscritti dal curato. Don Costanzo chiede però al vicario o di far condurre i prigionieri in Acqui o di “far altra deliberat[ion]e qual sij di ragione, poiché non hanno essi tante robbe che sij bastanti a farli la spesa otto giorni, ne anco restano sicuri quando voglij tentar la fuga perche il loco non è molto sicuro et già ne sono fugiti altri”. Gli uomini incarcerati nel castello di Montechiaro sono tre: Antonio Astegiano, sua moglie Maria e il cognato Bernardo Mocatti, accusati di andar questuando “senza licenza alcuna” e di essere “vagabondi e gabamondi”.
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Il 25 agosto don Valdivia si era trasferito nel castello per interrogare i tre detenuti. Il primo ad essere esaminato, previo giuramento e la comminazione di una pena di venticinque scudi d’oro da applicarsi alla mensa episcopale, fu Bernardo Mocatti.
“Inter[roga]to di qual paese sij, dice esser di Verona, stato di Venezia, esser della professione di caligaro et essersi partito da casa sua il mese d’Aprile fatte le feste di s[an]ta Pascha di resurr[etion]e del anno passato 1611 per andar a ritrovar suo cognato Ant[oni]o Astesano, et prima giunse a Mantua, dove se gli è fermato per giorni vinti c[irc]a et la causa esser statto per la febre che aveva dela quale pativa c[irc]a tre anni.
Int[erroga]to dove allogiava, et di che viveva, R[ispo]nde Sig[no]r io ho allogiato nel hospedale ma che dico io mi mento per che andai al hospidale et non me volseno allogiare benche havessi il bolletino fattomi da uno prette di S[ant]o Pietro, il qual bolletino subito lo stracciai in loro p[rese]nza, atteso che non mi volevano allogiare sotto pretesto che Sua Altezza non volesse ch’allogiassero forestieri.
Int[erroga]to perche si sij partito, senza haver alcuna fede da casa sua del stato suo, et essere sì come ancho della confes[sio]ne et comunione, Ris[po]nde Sig[no]r io non credeva andar tanto lontano quanto son andato, et haver fatto voto di andar a visitar la mad[onn]a sant[issi]ma di Lauretto, ritrovandosi infermo per dolor di costa nel loco di Cervia terra di S[ua] San[ti]tà (come crede) et essersi fermato ivi per vintiquatro giorni, nel hospitale esser statto visitato dal Medico, essersi ivi confessato et comunicato sa due o tre giorni doppo esser gionto, che fu li 14 o 15 di Xmbre [= dicembre] et essersi partito il giorno doppo l’Epifania, non haver ricercato la fede della confess[ion]e e comun[ion]e per ignoranza et esser sempre andato, e ritornato solo, essersi ancho fermato nel ritorno dalla s[an]ta casa di Loretto, nella badia dell’Ecc[ellentissi]mo S[igno]r cardinale Piatti, et il locho chiamarsi Casa Vallona, et quivi essersi dimorato dalli 15 di magio sino alli nove, o dieci del p[rese]nte, et ivi haver lavorato del’Arte sua per poter vivere, et che nel istesso loco è andato d[ett]o suo cugnato Ant[oni]o a ritrovarlo, et esser suo cugnato per che ha tolto sua sorella per moglie, gia tre anni sono ne ricordarsi di qual stagione fusse del anno et che d[ett]o Ant[oni]o suo cugnato tuolse la sud[ett]a sua sorella chiamata Maria sendo soldato nella su[dett]a città di Verona per innamoramento et nel sponsalitio eservi statto p[rese]nte in compagnia di suo padre il quale si chiama Gioani de Monatti et altri due soi fr[at]elli, uno chiamato Ant[oni]o, l’altro Baldasar, non haver altra sorella, la madre sua chiamarsi Margaritta, ne saper se a d[ett]a sua sorella gli sij statto datto, o costituito dote alcuna, la profes[sion]e del padre essere capellaro, i fr[at]elli uno del arte sua cioe del caligaro, l’altro esser picolo di 6 o 7 anni, non haver autoritade alcuna di questuare se bene doppo partitosi essi di Casa Vallona esser venuto con suo cugnato et sorella vivendosi d’elemosine qual domandava suo cugnato, il quale non haver alcuna licenza da questuare, ne ancho alcuna fede dove ne come sij stato indemoniato, ne liberato, et la tavoletta qual porta averli detto che gli è statta datta in Millano, ne saper da cui.
S[opr]a i gen[er]ali Int[errogat]o dice esser d’etta d’anni 25 del piu o meno, la profes[sion]e sua esser come sop]r]a, non posseder cosa alcuna, reputarsi giovene da bene, et vivere delle sue fatiche etc. et per non saper esso scrivere ha fatto l’infras[crit]to segno X.
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L’istesso giorno anno et mese, nel sud[ett]o loco, guidato e condotto avanti al soprasc[rit]to Sig[no]r prette Costanzo Valdivia Curato nel sud[ett]o loco, et in q[uest]a parte dellegato Ant[oni]o Astegiano dil Sasello diocesi d’Aqui, datoli il giur[amen]to con imposta pena come avanti, dice non haver padre, ne madre, ne sorella, et haver solo un fratello qual non sa se più viva, che si chiama Gioani, lui esersi partito da casa sua che aveva dodici, o undeci anni, essersi fermato in Aqui forsi sette o otto anni, p[rim]a haver servito il m[olt]o R[everen]do Sig[no]r prette Secondo canonico della Cathedral d’Aqui, per famiglio, che custodiva due vache sei mesi, et doppo haver servito Paulo Brayero panatiero, et che faceva hostaria del Angelo quando viveva suo padre con suo fr[at]ello Pietro da cinque o sei mesi c[irc]a dopoi haver servito il Sig[no]r Aurelio Vigho il quale allora aveva il datio ad affitto, per spacio di dui mesi, che dava ordine ad uno cavallo del’ istesso dopoi haver servito m[esse]r Bart[olome]o Savina per vacarotto c[irc]a tre mesi et il resto esser statto in essa citta mendicando, et servendo a chi lo chiedeva, dopoi sendosi partito d’Aqui essersi fermato in Alesandria c[irc]a mesi tre, servendo un Caporal de Spagnoli, di poi partendosi ando di longo a Mantoa, et vi stette forsi giorni quindici portando la lavagna, et indi poscia partitosi giunse a Verona, et per quindici giorni ando mendicando et poi si rimisse soldato alla porta dil vescovo, sotto lo capitano S[igno]r Francescho Rosario, dove servette per quatro mesi, e puoi fu casso.
Int[erroga]to dove ha tuolto moglie, R[ispo]nde averla tolta in Genua dove stava per servente con il S[igno]r Agostino Omelino, non avendo recevuto cosa alcuna per dote essendo che gia gli era statto tuolto l’honore, et che la tuolse come povera giovene per sua moglie dove la levò del pub[li]co postribolo per che avendo trattato seco carne et conosciutola carnal[men]te in p[rese]nza di doi testimoni beverno il vino insieme, quali testimonij non sa come si chiamino, et poi andorno alla chiesa dal Sig[no]r Vic[ari]o g[ener]ale della sud[ett]a citta in compagnia di dui gioveni genovesi l’uno chiamato Ant[oni]o Maria et l’altro m[esse]r Franc[esc]o Maria il cognome de quali dice non saperlo et eser ancho andati altri due del Sasello quali fecero fede sicome elli non era ne bandito ne maridato, figliolo di boni padre, et madre, et questi chiamarsi Gio. Antonio Astegiano et l’altro Gabriello Lucco, qual Ill[ustrissi]mo et molto R[everen]do Sig[no]r Vic[ari]o gli disse che andasse dal R[everen]do Sig[no]r prette Agostino Spinola curato di S[an]to Andrea il quale li dovesse, (fatte le pub[licatio]ni) congiungerli in matrimonio et così senza instr[ument]o alcuno, ne intervento d’alcuno parente, ne d’altro fureno (fatte due publ[icatio]ni) congiunti in matrim[oni]o; il nome della dona esser Maria Parmera figlia di Gioani Parvero, non haver fr[at]elli ne sorelle, dopoi averla lasciata in Genova, et andatosi per ritrovar ricapito.
Int[erroga]to perche habij detto già esser statto maridato un’altra volta, R[ispo]nde esser statto maridatto a Villanova d’Aste con una dona chiamata Bart[olome]a che stava nel ospedale di d[ett]o loco dove ancho stette esso mentre che essa visse, che furono doi anni, et che aveva un suol fr[ate]llo qual si chiama Michel Gallone ch’al p[rese]nte serve nel hospidal sud[ett]o et è sotteradore, et esser questo da cinque anni c[irc]a.
Int[erroga]to in che modo et quando sij statto oppresso dal demonio, et in che locho, R[ispo]nde esser statto indemoniato quando che avendo servito per quatro mesi come di sop[r]a nella citta di Verona furno mandati a Brescia dove servette per otto giorni, et per strada mangiando in un luogo dove si dice alle Betole discosto da Bresia dieci milia un boccone mangiando fu maleficiato, et esser statto per quatro anni avanti che si sij potuto accorgere d’esser travagliato dal demonio, esser statto da quindici o sedeci giorni dopo il maleficio a maritarsi con la p[rim]a sua moglie qual si chiamava Bart[olome]a Gallona come sop[r]a, et esser statto con essa due anni, ne mai essersi accorto di malefitio veruno, et dopò che la fu morta stette forsi vinti giorni et poi si marito con quest’altra Maria Parmera in Genova come sop[r]a et esser statto ancho due anni p[rim]a che si sia accorto del malefitio.
Int[erroga]to dove si sij scoperto il malefitio, et ancho dove sij statto liberato et da chi, R[ispo]nde essersi scoperto il malefitio in Millano dove andava domandando l’elemosina, et entrando nel domo, inanti il sepolcro di S[an]to Carlo, li demonij incomincioreno a darli fastidio facendoli far molti gride et atti, et poi da certi religiosi forestieri fu fatto condor alla Mad[onn]a del Monte discosto da Milano vinti milia, et ivi fu scongiurato per dieci giorni continui da un frate da un frate di san Fran[ces]co, ne saper come si chiama, dopoi esser ritornato a Milano, dove per tre mesi continui fu scongiurato sera et matina e finalm[en]te liberato da quindici spiriti.
Int[erroga]to da chi sacerdote et esorcista et perché non ne ha riportato fede, R[ispo]nde Sig[no]r io non conosco il sacerdote qual m’ha esorcisato, né sò il suo nome et perché come ignorante non ho ricevuta fede alcuna.
Int[erroga]to dove habij avuto la tavoletta et da chi gli sij statto datta, R[ispo]nde che gli fu mandato adietro essendosi partito da Milano un caraziere chiamato Lorenzo il quale lo ritrovo alla Mad[onn]a fuori di Pavia, che ivi sentiva messa et li disse che quel sacerdote che l’havea liberato gli mandava la tavoletta.
Int[erroga]to dove habbij poi ritrovato la moglie et se Bernardo di Mocatti è suo parente et cugnato, R[ispo]nde che ritrovandosi in Pavia con certi mulattieri genovesi gli prego che andando a Genova andassero nel carrogio delle beccarie in casa del monfordino dove serveva sua moglie et che li dicessero che di gratia andasse a Milano che ivi l’haverebbe aspettata, per che aveva intenzione di ritornarvi, ma andando puoi alla badia di Casa Vallona del Ill[ustrissi]mo S[igno]r Cardinal Piatti et fermandosi in c[irc]a otto giorni d[ett]a sua moglie gionse, et fermatosi ivi un giorno a Casa Vallona con sua moglie andorno a Varale et il d[ett]o Bernardo lavorava da calzolaio in una bottega nel sud[ett]o locho di Casa Vallona, ne haverlo mai piu veduto ne conosciuto ma ritornando da Varale lo ritrovo in Vercelli, dove si accompagno con essi et così sono sempre venuti di compagnia, non haver licenza ne facolta alcuna di andar cogliendo elemosine se bene in due o tre luoghi habij racolto qualche pocho di vetoalie doma[ndan]dole per amor di Dio.
Sop[r]a i g[ener]ali int[erroga]to di che eta sij R[ispo]nde Io sono d’anni 25 o sij 26; haver fatto voto d’andar a visitar la Mad[onn]a Sant[issi]ma del Mondovì che percio ha racolto alquanti cuchiari interi et rotti per farvi cellebrar due o tre messe, se esser del arte di incatenar corone procacciandosi il vivere al meglio et per che non sa scrivere ha fatto il segno seguente X.
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L’istesso giorno mese et anno avanti il sopra[scrit]to m[olto] R[everen]do sig[no]r vice parrocho dellegato condotta Maria qual dice esser moglie di Ant[oni]o Astesano et ella esser della città di Verona figl[iuo]la di Gioani et Margaritta giugali de Monatti impostali pena di scuti 25 d’oro, et in sussidio della scomunica Int[erroga]ta R[ispo]nde che è vero che Ant[oni]o Astesano del Sasello è suo marito et congiunta in matrimonio tre anni sono in domenica, nella citta di Verona nel otono, alla parrochia della badia, dal m[olto] R[everen]do S[igno]r prette Ronardo [?] preposto nella sud[ett]a badia, haver padre et madre soprann[omin]ati di s[opra], haver ancho due fr[at]elli in Verona quali si chiamano il p[rim]o Ant[oni]o l’altro Baldasar, tutti doi anchor figlioli quali attendono ad imparar l’arte della caloria, et nel istessa imparavano lettere, haver ancho un altro fr[at]ello qual al p[rese]nte anche esso si ritrova detenuto et chiamasi Bernardo Mocati, non sa se gli sij sta costituita dote alcuna, esser stata sposata con uno anello d’argento sopraindorato cioe una mano in fede et dopo celebrato le nozze fatto il matrim[oni]o essersi fermati in Verona giorni solo otto, et poi esser venuti in Mantoa et dopoi esser pervenuti a Genoa dove si sono fermati per due o tre mesi, filando seta, et il sud[ett]o suo marito essendosi ivi scoperto maleficiato andava raccogliendo elemosina, et fu scongiurato alla Mad[onn]a del’incoronata, et poi è stato scongiurato a Moncalvo dove si fermareno due o tre giorni, dopoi andoreno a Giarole et ivi da un prette grande con barba rossa fu scongiurato sera et matina et costrinse i spiriti a ritirarsi in uno dito del piede sinistro, et l’altro giorno si partireno con intenzione d’andar a Milano e stetero per strada tre mesi andando domandando elemosina di loco in loco per poter vivere et final[men]te gionti a Milano ella si ritiro in casa di una dona detta mad[onn]a Laura Binascha che stava a porta Genovese et ivi attendeva a filare per guadagnarsi qualche cosa per vivere et suo marito tutto il giorno andava ricercando elemosina per la citta, et si faceva scongiurar nel domo da uno esorcista d[ett]o don Crispino, almeno per vinti giorni, et non fu scongiurato da altro solo che dal d[ett]o don Crespino, che finalm[en]te lo libero avanti il sepolcro del glorioso s[an]to Carolo.
Int[erroga]ta perche non habbino portato seco fede alcuna della lor confes[sio]ne e comunione da tanto tempo in qua et ancho della liberatione dal demonio, R[ispo]nde che non haver portato fede alcuna per che quando che si dipartireno di Verona per andar al Sasello a casa di suo marito gionti a Genova esso Ant[oni]o suo marito scopertosi indemoniato strazio una fede qual gli fu fatto di poter andar ricercando elemosina et ivi lasciato la fede del matrimonio nel resto delle fede delle confes[sio]ni et comunioni, non haverne alcuna.
Int[erroga]ta donde fusse la moglie p[rim]a di suo marito et dove sij morta, R[ispo]nde sicome ella era di Villanova d’Asti, et esser morta in Alesandria al ospedale di s[an]to Ant[oni]o et q[uest]o averlo inteso dal sud[ett]o suo marito.
Int[erroga]ta s’è tempo asai che si partirno da Milano, et perche non habino recato seco fede della liberatione et che strada habino tenuto, R[ispo]nde essersi partiti due o tre giorni dopo che fu liberato che fu la vigilia di san Giac[om]o et esser venuti verso Pavia et Alesandria et non haver ricercato altra fede della liberatione solo che partendosi da Milano don Crispino qual l’havea liberato li diede una tavoletta qual dovesse portar seco, et esser sempre statto in sua compag[ni]a come ancho dal p[rim]o giorno che si partirno da Verona.
Int[erroga]ta dove si siano accompagnati con il sud[ett]o Bernardo, e con qual occ[asi]one, R[ispo]nde essersi acompagnati alla badia di Casa Vallona dove ivi lavorava et che se li accompagno per andar seco alla Mad[onn]a del Mondovì, et quivi compir li voti fatti che d[ett]o Bernardo era venuto in queste parti per ricercarsi ventura.
Sop]r]a li gen[era]li int[erroga]ta R[ispo]nde io sono d’età d’ani 20 o 22 c[irc]a haver partorito dui figli uno maschio et l’altro femina, et l’ult[im]o che fu maschio lo partorì morto mentre stava in Milano et hora esser gravida di tre mesi, e mezzo, haver sempre fatto professione di dona da bene visuta col suo sudore et honore.
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L’anno mese come sop[r]a et li 26 dil p[rese]nte
S’è costituito avanti il sopra[scrit]to s[igno]r vice Curato Gio[vanni] Batt[ist]a figl[iuo]lo di Lucco Servento di Montechiaro datoli il giura[men]to et impostoli pena di scuti dieci et in sussidio della scomunica di dire la verita di quanto sara domandato per interesse della mensa ep[iscop]ale d’Aqui.
Et p[rim]o int[erroga]to se elli ha mai veduto et conosciuto in alcun loco due homini vagabondi quali sono quivi sta fatti prigioni con una dona, R[ispon]de che ritrovandosi in San Salvadore dove andava ricercando per l’amor di Dio per esser povero ritrovò ivi nel hospidale novo uno delli sud[ett]i detenuti qual si dice chiamarsi Ant[oni]o Astesano il quale allora si faceva Geneverino con due altri compagni, quali simil[men]te si facevano Geneverini venuti alla s[an]ta fede che percio dicevano portarne fede, et si facevano raccomandar nelle chiese et averli ancho puoi ritrovati a Valenza nel hospidale, dove mangiato che ebbero una galina con delli taglierini in minestra, incominzioreno a contender fra di loro per haver giocato uno delli danari che avevano guadagnati comunemente di elemosina.
Int[erroga]to dove andoreno et se sà il nome delli compagni, et se avevano questa o altra dona in loro compagnia, R[ispon]de che costui chiamato Ant[oni]o in compagnia d’un altro che si dimandava Georgico si partirno insieme domandandosi l’uno e l’altro per cugnati, et l’altro il cui nome non sà disse di voler andar a Sale loco verso Tortona et voleva che esso deponente andasse in sua compag[ni]a et che gli agiutasse a portar certe robbe et bagagij che aveva, ne haver essi in compagnia loro ne questa ne altra dona.
Int[erroga]to se costoro facevano alcuna profes[sio]ne et in che modo vivevano, R[ispon]de che essi non facevano ne arte ne professione alcuna, ma che come sop[r]a andavano domandando come Geneverini.
Int[erroga]to per qual causa habbij detto egli quando costoro fureno presi, che il sud[ett]o Ant[oni]o si faceva domandar Georgico, R[ispo]nde esser vero che elli lo disse, ma che si equivocò dal’altro compagno, et che costui si faceva domandar come disop[r]a Ant[oni]o Geneverino et questo esser statto nell’invernada passata cioe dieci o quindici giorni inanti il carnevale.
Int[erroga]to se il sud[ett]o Ant[oni]o diceva esser statto in spiritato et se aveva seco alcuna tavoletta, R[ispo]nde non averli mai udito dire d’esser in spiritato, ne meno averli mai veduto alcuna tavoletta.
Sop[r]a i gen[era]li int[erroga]to R[ispo]nde esser figl[iuo]lo di boni padre et madre benche poveri, non esser stato sedutto, ne induto da alcuno, ma haver deposto la mera verita, esser d’eta d’anni 18 in c[irc]a et per non saper scrivere ha fatto il seguente segno + ”.
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Il documento – che si trova nell’Archivio Vescovile di Acqui, nel fondo riservato alle Parrocchie: Montechiaro, faldone 2 – è interessante per varie ragioni. Esso apre infatti più di uno spiraglio su un secolo “sudicio e sfarzoso” (Manzoni), e quindi ricco di vistose contraddizioni, come il nostrano Seicento. Chi sfogli i libri dei conti di qualsiasi confraternita resta colpito dalla frequenza con cui, tra le uscite, figurano elemosine elargite a “ebrei venuti alla fede”, a “barbetti” o “luterani” o “calvinisti” o “ginevrini” o, più in generale, a “eretici fatti cristiani”. Si trattava talvolta di pellegrini in transito, che, all’occorrenza, trovavano asilo negli “ospedali” (hospitales o hôpitaux) o negli “xenodochi”, ma viene il sospetto che la maggior parte di tali questuanti fossero, in realtà, dei vagabondi che, per raggranellare qualche soldo o qualcosa da mangiare, si spacciavano per convertiti. Altrimenti si dovrebbe supporre che il numero delle conversioni fosse davvero ingente. È ben vero che per essere accolti negli “ospedali” i pellegrini, partendo da casa loro, dovevano munirsi di un certificato ad hoc, cioè di una “fede” del proprio curato, che fungeva, per così dire, da passaporto, ma le contraffazioni erano all’ordine del giorno e mille scuse – come dimostra pure il nostro documento – potevano essere inventate per sopperire alla mancanza di esso.
D’altra parte distinguere, in casi del genere, gli aspetti religiosi da quelli economico-sociali era tutt’altro che facile. Anche perché per tutto il medioevo “il mendicante era [stato] circondato da un sacro rispetto”, in quanto personificava Cristo. Secondo Pietro Crisologo, manus pauperis est gazophilacium Christi: quia quicquid pauper accipit, Christus acceptat [“La mano del povero è il deposito del tesoro di Cristo: poiché tutto ciò che il povero riceve, Cristo lo accetta”]. E a chi rimarcava le furfanterie, gli inganni e le violenze di cui spesso erano responsabili i vagabondi di mestiere che pullulavano per le vie delle città, gli uomini di Chiesa puntualmente ricordavano con san Paolo che caritas […]omnia credit [“la carità… crede tutto”]. Nel senso, ovviamente, che comprende e mette in conto anche le ragioni di eventuali bugie. Ogni discriminazione, nella sua presunta pretestuosità, veniva bollata come anticristiana: il mendicante era, comunque, “uomo di Dio” (Deo sacer). Anziché sottolineare le cause politiche ed economiche della mendicità e del vagabondaggio, in modo da rimuoverle, si preferiva mettere l’accento sul fatto che i poveri rappresentavano “una specie di medicina sociale per i ricchi e per i meno poveri un inesauribile esercizio di carità” (Camporesi). La presenza dei mendicanti e dei miserabili in genere era vista, in altre parole, come un’occasione o uno stimolo di edificazione. O come un perenne ammonimento, ribadito, nel Vangelo di Matteo (26, 11), da Cristo stesso: “[…] i poveri li avete sempre con voi […]”.
C’era nondimeno chi – come il francescano Berthold di Regensburg – escludeva dalla famille de Christ giudei, giocolieri e vagabondi, accusati di indulgere a multis superstitionibus e diabolicis imposturis. C’era, nella loro irrequietudine, qualcosa di sospetto, se non addirittura di diabolico: esagitati dal morbo pestiferae vagationis, finivano per infoltire le schiere degli sbandati e degli irregolari, mettendo a repentaglio l’ordine e la sicurezza sociale. Sulla scia tracciata dal diritto giustinianeo, che disponeva l’impiego dei questuanti validi in lavori di pubblica utilità, pena il rientro forzato nelle province d’origine, il potere politico cercò, nel medioevo, di porre un argine al vagabondaggio equivoco, con scarso successo. La Chiesa stessa cominciò ad intervenire allorché risultò evidente la portata eversiva di certo nomadismo, alimentato da clerici vagantes, da poveri di mestiere o da cerretani seguaci di credenze religiose eterodosse, potenzialmente eretiche e pericolose. E se, all’inizio dell’era moderna, Lutero invitava a diffidare dei falsi accattoni e dei “disperati furfanti”, che, in combutta col diavolo, finivano per sottrarre le elemosine a chi veramente ne aveva bisogno, la Chiesa, dal canto suo, nel tentativo di limitare il contagio riformistico, promosse un più rigoroso controllo del fenomeno. Allarmava, in particolare, la promiscuità sessuale, che poteva richiamare i settari del libero amore. O la provenienza dei vagabondi da paesi “infetti” d’eresia. Si moltiplicarono quindi le licenze, senza le quali la questua non era consentita, o i bollettini, che dovevano testimoniare una regolare pratica dei sacramenti. “Sopra ogn’altra cosa – raccomandava nel 1595 mons. Montiglio durante la sua visita apostolica nella diocesi di Acqui – siano i parroci vigilantissimi a conoscere gl’heretici overo sospetti d’heresia et a denuntiare i loro nomi”. Anche gli zingari erano guardati con sospetto, tanto che il medesimo visitatore invitava il vescovo ad allertarsi “per saper se li cingari ch’alcune volte conversavano in questa sua diocesi vivevano christianamente et secondo li precetti della Santa Chiesa, se facevano cosa alcuna a usanza di schismatici, se magnavano carni et altri cibi proibiti nella quadragesima et vigilie”. E se le autorità civili, con le bollette di sanità, si premuravano soprattutto di tener lontano dai loro territori ogni sospetto di morbo epidemico, gli ecclesiastici si preoccupavano in primis d’impedire la diffusione di scritti “proibiti”, di “libri luterani”, di idee eterodosse. Forse gli stessi ospedali dei “poveri mendicanti” sorti sull’aire della Controriforma non erano solo espressione di uno slancio caritativo: togliere i mendicanti dalle strade, internarli, controllarne i comportamenti e indirizzarne le menti non era meno importante. Tanto che molti, per sentirsi più liberi, continuarono a preferire la vita di strada.
La sconcertante mobilitè des hommes du Moyen Age rilevata da Le Goff non si attenuò affatto nei primi secoli dell’evo moderno, anzi, a causa di vari fattori (tra cui il frequente transito di truppe, il desiderio di sfuggire alla fame, alle guerre, alle malattie, ma anche l’infittirsi dei pellegrinaggi “a breve raggio”, nei santuari più famosi, la ricerca di nuove e più redditizie occupazioni, a volte anche un’irrefrenabile brama di avventura) parve talora accentuarsi. Osterie, taverne, locande, ospedali, postriboli divennero porti di mare. Le strade si riempirono di “picari” in perenne movimento, di accattoni e lestofanti d’incerta provenienza e spesso di età indefinita. Uomini e donne senz’arte né parte ma disposti a cimentarsi in mille mestieri, più spesso costretti a vivere di espedienti, si incontravano nei luoghi più disparati, si aggregavano più o meno provvisoriamente, si spostavano da una città all’altra in una sorta d’incontrollabile moto browniano. Non di rado rischiavano il carcere o la galera. E c’era pure chi per suscitare la compassione del prossimo si atteggiava a indemoniato e sollecitava l’intervento, non sempre risolutivo, degli esorcisti. L’adempimento di un voto, magari fatto in circostanze drammatiche, forniva poi la scusa per nuovi viaggi, di santuario in santuario, da una regione all’altra.
Per sfuggire al controllo delle autorità religiose e civili questi incorreggibili vagabondi avevano pronte – come nel nostro caso – avvincenti storie da raccontare: storie infarcite di molti particolari credibili, di notazioni realistiche, eppure, nel complesso, piuttosto inverosimili, sospese come erano tra la casualità più pura e le coincidenze più assurde. Di queste affabulazioni che combinavano verità e menzogne in un inestricabile mixage non sfuggivano agli inquisitori ben addestrati le incoerenze, i punti deboli, le contraddizioni che emergevano dall’incrocio delle varie testimonianze: le “bugie”, seppur dettate da una nativa e smaliziata “furberia” e “furfanteria”, avevano pur sempre le gambe corte. Ma intanto, a chi le legga a tanta distanza di tempo, fanno l’effetto di certi racconti di natura picaresca usciti dalle penne di illustri maestri del genere. E si resta ancora una volta sospesi nel dubbio se la letteratura rispecchi la vita o viceversa.
Calzolai, muratori e pastori
Montechiaro, 23 ottobre 1674: il maestro calzolario Bartolomeo de Petris de lacu maiori [ASAl, Notai di Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3220].
Montechiaro, 27 giugno 1677: accordo tra il notaio Bartolomeo Casanova e i maestri da muro luganesi Domenico Dominighetti e Gio. Maria Morando, che promettono di rifargli da tetto a terra la muraglia dirruta, solaio e tetto compresi, della casa in contrada Camaretta, rifacendo anche tutte le fondamenta. Per 40 lire di Genova e la materia sul luogo [ASAl, Notai di Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3220].
Montechiaro, 22 novembre 1685: il maestro da muro Gio. Maria Morando dello Stato di Milano è incola loci [ASAl, Notai di Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3222]. Risulta pure da un atto del 22 gennaio 1680 [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 73].
Montechiaro, 26 novembre 1694: il maestro Gio. Pietro Deci del luogo di Nochi (Stato di Milano) calzolaro a Montechiaro [ASAl, Notai di Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3220].
Montechiaro, 25 agosto 1677: il maestro Carolo Vedano cerdone Lacus Maioris [ASAl, Notai di Acqui: Giovanni Battista Serventi, faldone 67].
Montechiaro, 30 novembre 1687: si trova in paese il nobile Ambrosio Falco sutore Miolie [ASAl, Notai di Acqui: Giovanni Battista Serventi, faldone 68].
Montechiaro, 27 agosto 1674: Bartolomeo de Petro cerdone dello Stato di Milano [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 73].
Montechiaro, 2 maggio 1676: Giulio Cesare Serventi ottiene l’esenzione dalle imposte per avere dodici figli. Presente il maestro Carolo Domenieto figlio del maestro Domenico cerdone loci Locarni Luganensis [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 73].
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Montechiaro, 8 aprile 1683: testa Giovanni Mazza di Spigno; tra gli altri è presente anche il caprario Joanne Robbia oppidi Bardierij [Valdieri], status Sabaudiae [ASAl, Notai di Acqui: Giovanni Battista Serventi, faldone 67]. // Montechiaro, 14 dicembre 1685: è qui commorante Jo. Dominico Belluna capraro allobrogo [ASAl, Notai di Acqui: Giovanni Battista Serventi, faldone 68]. // Montechiaro, 10 maggio 1675: convenzione tra la Comunità e il capraro Giordano Aimé di Audero [sempre Valdieri] (Stato di Savoia): pascolò numerose greggi di pecore nei boschi di Quazzolo, Crovara e Pallareta, propri della Comunità dal 27 al 29 aprile, facendo danni: per cui è stato multato secondo gli Statuti del luogo. Ora egli chiede di «non haver riguardo al rigor di detto statuto, ma bensì compassionare alla sua miseria, et sparmiare le spese, se bewne sappi haver fallito in non chieder licenza di pascolar ne boschi del comune da detto Conseglio». Viene risparmiato, e lui, non volendo dimostrarsi ingrato, promette di pagare una doppia e mezza in quattro capretti grassi, che i consiglieri assegnano alla «restauratione del tabernacolo della Parrocchiale» [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 73]. // 28 maggio 1675: altri danni provocati dal capraro, che si è accordato per il pascolo delle capre con Gio. Francesco Soardo per due rubbi di formaggio (a metà prezzo) e con Antonio Francesco Accosano per 31 libre di formaggio in cambio del pascolo nei suoi gerbidi e boschi. Gli hanno fatto sequestrare il gregge, dal momento che non può far fronte alle spese (35 lire di Savoia), data la sua miseria. Compensa con tante capre [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 73].
Canelli, 20 maggio 1686: i caprai Gio. Domenico e Gio. Andrea fratelli Bava di Vadier [Valdieri], Stato di Savoia, pattuiscono con il marchese pro pascuis sul finaggio di Montechiaro, promettendo di pagare 105 lire sabaude e due capretti grassi e ben condizionati. Non potranno però condurre le capre nei castagneti. Hanno 130 capre e pascoleranno in zerbidi e incolti dove non si semina e nei boschi selvatici. L’accordo è ribadito il 23 maggio 1687 [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 74].
Montechiaro, 11 luglio 1689. Con l’assenso del marchese il capraro Gio. Piasenza di Vaudier (Stato di Savoia) ottiene di pascolare il suo gregge di 100 capre, novanta da latte e le altre novelle, promettendo di versare 100 lire ducali al marchese e ai suoi agenti e di non arrecar danno ai boschi [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 74].
Montechiaro, 16 maggio 1692: risulta risiedere in paese il capraio Gio. Andrea Belluna loci Vaderij [ASAl, Notai di Acqui: Michele Serventi, faldone 74].
Montechiaro, 25 marzo 1695, in contrada di Vacha Morta. Gio. Maria Salvetto di Mombaldone attesta che «sotto li diciassette del corrente mese, à hore vinti circaessendosi partito della sua casa per andare alla sua cassina dove si dice alla mota, e mentre fù per strada, à caso s’incontrò nella persona di Gio. Andrea cappraro qual è molti anni che viene a pascolare le capre sopra questo finaggio di Montechiaro ert così discorrendo detto cappraro disse: se porterò qualche cosa à vostra casa, me farete gratia di non pallesare niente à persona alcuna, et detto attestatore li rispose: perché mi dite questo, et il detto capraro rispose: perché vi sono gente che mi tengono mano à partirmi». // 10 gennaio 1695: Tomaso Barata attesta che «del mese di maggio prossimo passato in giorno di festa, non ricordandosi del giorno preciso, ritrovandosi in Montechiaro, e discorrendo con Giacomo Marengo, massaro della massaria della Calva del signor Podestà, et frà le altre cose discorrevano come si era partito da questo luogo Gio. Andrea cappraro, et così il sudetto marengo disse, come detto cappraro li richiedé le stalle della masseria con dirli che le nettasse, che li vuole andare ad alloggiare alla sera con le cappre et il detto marenco li rispose che vaddi pure quando vole, che li piace, che circha le stalle sarrano nettate, et apparecchiate, et così indi poi detto cappraro li andò ad alloggiare alla sera con le cappre, ma alla mattina seguente si partì con dette capre, et andato via, et replicò detto marengo: se mi fosse stimato di questo, non haverei fatto la fatticha à nettar le sudette stalle» [ASAl, Notai di Acqui: Gio. Francesco Suardo, faldone 3222].
Carlo Prosperi