Pietra e non solo. Racconto di Patrizia Nidosio

di Marina Levo

Pietra ma non solo.
Chissà se vi ricordate di me, sono Pietra, cioè sono una pietra.
Vi ho già raccontato che vivo sulla torre del mio paese, molto in alto da mille anni o forse meno, faccio da pietra angolare sotto un archetto.
Ho resistito a tutte le intemperie e all’incuria umana, a differenza dei “merli” che sovrastavano tutte noi pietre e si sentivano indistruttibili ma sono caduti rovinosamente a terra.
Ho conosciuto animali del cielo e della terra che si sono riparati all’ombra della nostra torre e hanno trovato cibo per sopravvivere, sono stata felice di vederli ben pasciuti ma anche triste per quelli che hanno dovuto soccombere.
Però, devo ammetterlo, quelli che hanno attirato di più la mia attenzione sono stati donne e uomini.
Già, voi pensate che noi pietre siamo solo… pietre, cioè senza vita.
Invece anche la nostra materia vive, si trasforma e noi siamo di questo mondo come voi.
E io vi osservo.
E’ da quando mi hanno portata quassù, ridotta a un cubetto, immersa nel cielo, che vi vedo nascere, giocare, faticare e poi morire.
Alle volte me lo chiedo, ma io vivrò per sempre?
Credo sia l’eterna illusione che accomuna tutti gli esseri di questo mondo, crediamo che a noi non succederà come agli altri ma, un giorno sicuramente, anche le mie molecole si divideranno e di me non resterà nulla.
Certo continuerò a vivere sotto altre forme, ma io individuo no, sono unica e irripetibile.

Tornando a voi umani, è da un bel pò che vi osservo, siete cambiati nel modo di affrontare la vita, nel vestire e nel parlare, un tempo sentire lingue straniere era un cattivo segnale, oggi è chiaro segno del denaro che circola.
Denaro, denaro, è sempre il vostro primo pensiero!
Se ne avete cercate di averne sempre di più e intanto vi perdete tante cose belle della vita, come guardare una torre che si staglia su un cielo fantastico, di qualsiasi colore sia, la bellezza degli animali, creati come voi, la forza della natura o l’amicizia dei vostri simili, così preziosa.
A proposito di natura, adesso è di nuovo autunno ma come e’ cambiato anche lui.
Per centinaia d’anni d’autunno ho vissuto nelle nebbie più spesse, umidità e freddo, ora caldo e freddo si alternano in qualsiasi stagione.
Una confusione che non porta niente di buono, i miei amici animali non trovano più cibo come un tempo e di conseguenza anche voi dovete mangiare cibo straniero.
Fino a pochi anni fa frotte di passerotti si radunavano intorno a me felici, si posavano sui tetti o nelle vie, oggi devono lottare molto di più per la loro vita, ormai sono pochissimi.
Voi umani riuscite a mettervi in mezzo alle regole della natura, che è già per suo conto meravigliosa ma cruda verso tutti, e il vostro “ordine”, pur così necessario, troppo spesso crea guai.
Da parte mia spero solo di poter rimanere quassù a vedere il mondo dall’alto e a tirare qualche sasso sulle vostre zucche vuote, se le combinate troppo grosse.
Mi viene in mente, a proposito di zucche vuote, che è stato proprio in un giorno di novembre di qualche centinaio di anni fa che ho conosciuto Gioan.

La nebbia era spessa e grigia, una bambagia impregnata di umidita’ che colava e ghiacciava sui muri e su due soldatacci che quel giorno lì dovevano stare a fare la guardia all’ultimo piano della torre.
Avevano acceso il fuoco in un braciere per scaldarsi e per comunicare con altre torri, anche se la luce delle fiamme non riusciva a bucare la coperta di nebbia.
In quei giorni c’erano stati degli scontri nella valle della Bormia, non con truppe nemiche ma con bande di farabutti nomadi.
Alcuni erano stati uccisi e davano cibo ai corvi, altri erano fuggiti, le guardie della torre erano ancora in allerta.
All’improvviso la botola che dava sulla scala a pioli si aprì, i soldati sobbalzarono e misero mano al pugnale nel fodero, tirati come molle, apparve loro una testa incappucciata con due occhi grandi come albicocche divisi da un ciuffo umido di capelli, lo sguardo reso diabolico dalla luce abbacinante della fiaccola che portava.
I due omacci dopo il primo momento di paura si resero conto che si trattava di un ragazzotto con il loro rancio che rischiava di capitombolare giù dalla scala per tutta la torre, allora scoppiarono in una fragorosa risata, puntando il dito verso la figura.
Poi si sedettero su una panca e si riavvolsero nelle coperte, indicarono al ragazzo un tavolino di fortuna dove posare il cibo che aveva portato e gli gridarono di farsi riconoscere la prossima volta, se non voleva essere ridotto a uno spiedo, la torre era sicura ma non si poteva mai sapere.
Il ragazzo si muoveva goffamente e intanto annuiva facendo cadere all’indietro il cappuccio mostrando un viso scarno con folti capelli chiari e grandi lentiggini che danzavano con le faville incandescenti, avrà avuto quattordici o quindici anni.

I soldati, induriti dalle battaglie e dalla vita grama, lo squadravano, così magro e misero, mentre azzannavano il loro rancio indifferenti e quasi divertiti dalla sua goffaggine e magrezza, con un ghigno gli fecero cenno di andarsene.
Lui si precipitò nella botola richiudendola sopra di sè e poi via, con la fiaccola sopra alla testa, giù dalla lunga e stretta scala a prendere ordini per il suo nuovo lavoro.
Quella fu la prima volta che vidi Gioan.
Gioan era nato in una borgata di povere case più in basso rispetto allo spuntone di collina che sostiene la torre, vicino al cimitero delle frazioni che oggi non esiste più, a ricordarlo solo una chiesetta.
Suo padre aiutava i quattro monaci della chiesa nel cimitero, scavava fosse e faceva tutti i lavori pesanti che loro non potevano fare per l’età e i dolori, in cambio portava a casa un po’ di verdura, lardo pane o tela per la famiglia.
Ma sfamare moglie e sette figli non era facile.
La giornata era dura per tutti, si svegliavano alle sei al suono della campanella dei monaci, fuori dal giaciglio si rimettevano la camicia, lunga per le donne più corta per i maschi.
Sopra indossavano una tunica scura e per il freddo si scambiavano dei vecchissimi panciotti di lana, invece sotto la camicia i maschi portavano delle brache di tela leggera, le femmine no, avevano delle sottane e tutti calze fino a metà gamba.
Gioan portava delle calzabrache, che usavano un tempo, tutte lise e bucate.
Quando il corpo era tutto rivestito allora si lavavano mani e viso e via a messa, per ricordarsi di rigare dritto.
Dopo una frugale colazione tutti si mettevano al lavoro, perlopiù nei campi che offrivano tanta fatica e poco cibo, così la fame non veniva mai soddisfatta per davvero.

Gioan aiutava la madre nei campi e il padre nel cimitero a scavare o a calare i defunti nelle fosse e a sbirciare le offerte che prendevano i monaci.
Lì arrivavano sempre morti poveri, raramente qualche cavallo bardato accompagnava un carro.
Allora Gioan rimaneva incantato a guardare il cavallo, così grande e bello, con i finimenti colorati e la gualdrappa.
Si immaginava cavaliere con il mantello rosso, lo scudo lucido e lo spadone, e poi tanto fieno per il cavallo e un morbido tappeto per lui con sopra ciotole piene di cacciagione e vino, tanto vino, che non aveva mai assaggiato.
I suoi sogni venivano interrotti da una sventola del padre o di un monaco, magari di tutti e due.
Allora tornava al lavoro, si guardava gli abiti laceri e le suole rotte sotto le calzette e si sentiva triste.
Alle volte la tristezza lasciava il posto alla rabbia che Gioan scaricava prendendo a calci le zolle di terra, sporcandosi ancora di più con polvere o fango.
Un giorno due cavalieri passarono lentamente tra le casupole diretti alla torre.
Indossavano abiti ricchi e puliti, una tunica bianca, le calze lunghe nere, calzari in cuoio e uno splendido mantello rosso che lasciava intravedere il fodero del pugnale tutto lavorato, in cuoio anch’esso.
Lo spadone appeso alla sella.
I bambini della borgata li guardavano con occhi spalancati, le madri con inquietudine, Gioan prese la sua prima decisione.
Quella sera disse ai genitori che voleva andarsene da lì, da quella vita grama, voleva salire alla torre a cercare qualcosa da fare per vivere meglio.
I genitori dapprima lo squadrarono sgomenti ma poi, pensando che scherzasse, cominciarono a schernirlo e a dirgli

che conciato com’era e con la sua goffaggine lo avrebbero rimandato a casa a calci e sassi nella schiena.
No, Gioan era irremovibile.
Ne parlarono per giorni, alla fine il padre chiese ai monaci un quarto di tronco per costruire un paio di zoccoli per quel figlio disgraziato.
Ci mise tre giorni e una mattina, dopo la messa, Gioan indossò gli zoccoli, una tunica di lana con maniche sotto al gomito, un cappuccio del padre, prese il bastone che si era fatto d’estate e gli appese un fagotto con un po’ di pane, ecco era pronto per partire alla ventura, contento nonostante la nebbia che gli bagnava il naso gelato.
I fratelli si strinsero ai genitori per salutarlo ma le due sorelle più grandi si chiusero in casa, un po’ per il dispiacere un po’ perchè anche loro avrebbero volentieri lasciato quel posto, impensabile per una donna.
Il padre dopo averlo salutato con un cenno del capo rientrò in casa anche lui, lasciando la moglie e il bimbo più piccolo a piangere a dirotto.
La mamma si disperava e il piccolo la imitava perchè non capiva cosa stava succedendo, allora Gioan la rassicurò che non gli sarebbe capitato nulla di male, ormai aveva forse quindici anni ed era tempo che lui cercasse fortuna per tutti loro.
Partì, guardato di sottecchi dai suoi amici e vicini.
La torre era completamente nascosta dalla collina e dalla nebbia, gli zoccoli gli facevano un male cane ma gli permettevano di non camminare direttamente nel fango, la lana del panciotto e l’impervia salita non gli facevano sentire troppo freddo.
Per fortuna, dopo un bel po’ di strada, un contadino lo fece salire sul suo carretto trainato da una vacca, Gioan potè riposare i piedi doloranti.
Svoltata una curva… miracolo!

La nebbia si squarciò, tagliata dalla luce accecante del sole, le pietre della torre sembravano d’oro contro il cielo terso, anche la strada che si inerpicava sulla collina sembrava un filo d’oro galleggiante su un mare di nebbia che ammantava le valli della Bormia e dell’Er.
Gioan con la bocca spalancata si stropicciava gli occhi per vedere meglio quello spettacolo, che emozione…
Il contadino intanto rideva della reazione del giovane e gli spiego’ che quando la nebbia è bassa in alto c’è il paradiso.
Infatti le loro ossa si stavano riscaldando, l’umidità abbandonava gli abiti e gli animi erano subito più allegri, anche quello della vacca.
Man mano che si avvicinavano alla torre e alle poche case intorno incontravano più gente per strada con animali e carretti, arrivava forte il vociare dei soldati.
Arrivati in cima alla salita la strada montava ancora verso il cocuzzolo della collina e la vacca dovette tirare con più affanno il carro pieno di sacchi d’orzo.
Passarono davanti alle guardie che conoscevano il contadino e non li fermarono ma, giunti davanti al portone d’ingresso alla torre, il contadino disse a Gioan di scendere perchè non poteva entrare nei magazzini della guarnigione.
Gioan si riscosse dal suo stupore per quel mondo sconosciuto e si mise a pregarlo di farlo entrare così avrebbe potuto chiedere di lavorare.
Il contadino si arrabbiò e spinse Gioan giù dal carro il quale però si attaccò a una stanga, continuando a supplicare di farlo entrare.
Il carro con uno scossone varcò il portone da cui uscirono tre guardie attirate dalle urla dei due, prontamente acciuffarono il povero Gioan stringendolo in una morsa di braccia.
Il più nerboruto dei tre alzò il suo pugnale sulle spalle di

Gioan ma una voce decisa e autoritaria gli impose di aspettare a ucciderlo e a portarlo dentro.
Le zampacce dei soldati lasciarono cadere a terra il disgraziato per poi trascinarlo e farlo inginocchiare davanti al capitano delle guardie della torre.
Gioan era tutto scosso dai tremiti di paura e non alzava il capo, allora la guardia dal pugnale facile gli sollevò la testa per mostrarlo al suo comandante.
Il capitano, per fortuna di Gioan, era accompagnato dalla giovane moglie che si impietosì e chiese al marito di non maltrattare troppo quel disperato con il viso tutto rigato dalle lacrime.
Fu interrogato e creduto, gli fu dato pane e formaggio in una stalla di capre e indicato un giaciglio dove avrebbe potuto dormire, ma non subito.
Avrebbe dovuto lavorare duro per guadagnarsi il vitto e forse sarebbe potuto diventare soldato, magari cavaliere come aveva detto alla signora del capitano tra le risate degli omacci presenti.
Quindi gli fu affidato il suo primo compito importante, salire tutti i piani della torre per distribuire il rancio alle guardie, seguito a vista e senza rovesciare niente per evitare le botte del cuoco.
Gioan si legò al collo il pentolone di fagioli e salsa all’aglio e tutto dolorante cominciò la sua nuova vita.
Da quel momento divenne Gioan della torre.
Di lui so tutto e se volete posso continuare a raccontarvi le sue disavventure e le sue vittorie, ma ora vorrei vedere cosa succede qua sotto.
Vedo dei paesani che conosco bene che si affaccendano, forse per illuminare il paese e prepare il Presepe, Natale arriva in fretta.

L’Avvento è il periodo dell’anno che preferisco e voglio fare bella figura, come sarebbe bello però se un po’ di neve mi vestisse di trine e merletti bianchi, come ai vecchi tempi…
Toh…c’è anche la mia amica che da la pappa ai mici, sono tanto belli e una buona compagnia per me.
E’ proprio vero, più si invecchia più la compagnia diventa importante, anche per una pietra di una vecchia torre!

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